La Grecia è un filo rosso #1

I greci quando cantano ai tavoli delle taverne chiudono gli occhi. Li chiudono perché il midollo della loro canzone popolare è fondamentalmente tutto succo di dolore. Una sera, in una taverna della periferia di Atene mi è capitato di assistere a un momento pieno pieno, tutto inzuppato di antropos: un uomo tanto possente – ma non grasso – al capotavola con altre sei persone fa un cenno al cameriere, quello riaccenna assenso a sua volta e corre in cucina, subito cambia la musica, allora l’omone afferra gli angoli della tavolata come ci fosse un terremoto in corso, tira il capo indietro, chiude gli occhi e a voce altissima, tutta scurita dalle sigarette, comincia a cantare; in quel precisissimo momento le posate di tutta la taverna hanno smesso di tintinnare, gli uomini di giocare con il komboloi, le donne di parlottare tra loro, persino la cucina di spadellare.
L’uomo cantava.
La Grecia è un filo rosso.

Una carta sola giocata al buio

Quando ho fatto per guardarmi le scarpe
salendo i quattro gradini del tempo
mi sono accorto dello sporco
che lasciano le stagioni.
E mi manca l’attesa
che da il vuoto
quando mi
pugnala,
invece
ogni
è
solo
un’altra
carta sola
giocata
al buio
nero
fitto
stupido
come me,
che solamente
due confini reggo:
quello della
cattiveria
e quello
della
vita.

Commettendo un delitto

La casa bisogna che sia profumata
altrimenti la notte
non ci riesci a dormire.
Intanto
dall’altra parte del mondo
starà albeggiando
e chissà a quale distanza
qualcuno
sta commettendo un delitto;
perché certamente
qualcuno
sta commettendo un delitto
oppure solamente
non sta sopravvivendo
a una notte senza luna.

Quattro gradini

Quando ho fatto per guardarmi le scarpe
salendo i quattro gradini del tempo
mi sono accorto dello sporco
che lasciano le stagioni.
E mi manca l’attesa
che da il vuoto
quando mi
pugnala,
invece
ogni
è
solo
un’altra
carta sola
giocata
al buio
nero
fitto
stupido
come me,
che solamente
due confini reggo:
quello della
cattiveria
e quello
della
vita.

La notte di S. Lorenzo

Questa comoda calma
questo silenzio morbido
che incalza nell’ultimo pomeriggio
quando attracca
sulle rive della consapevolezza
la malinconia liquida della sera
 
questa luce buia
questo frusciare di anime
nel sole che rimuore
quando tutti i cieli si spengono
e sulle spalle bussa il richiamo del riposo
il riscatto chiesto agli insonni
 
questa luna profumata
questo nero coriandolare di stelle
che si bagnano negli sguardi
supplicati di chi ha il talento della fede
meravigliati di chi cerca l’abisso
magnificati di chi aspetta
che le costellazioni cambino
che comincino a brillare al contrario
così da invertire la rotta
di una barca
che si è allontanata troppo
e troppo presto.

La forma che ha la tua nostalgia nella mia mano

Tieni
– mi disse
con un sottile sfiato di voce
come fosse dentro a un respiro –
questa è la mia nostalgia
tienila tu
io rischierei di perderla
o peggio
stropicciarla
rovinarla
ucciderla.
E comprendi
– aggiunse –
che c’è poco da guardare
nello spettacolo degli uomini
se la tenerezza non è avvinta
stretta stretta
alla nostalgia
nel mirabolare
potrebbe capitolare
e frantumarsi in piccoli cocci d’indifferenza.
Aprii una mano
gliela porsi
– chiudi gli occhi! – mi fece
e io chiusi gli occhi
sentii un piccolo oggetto freddo posarsi sul palmo
e poi le sue mani che chiudevano le dita della mia
con dentro la sua nostalgia.
Adesso voltati – disse –
così ebbe le mie spalle
puoi aprire gli occhi ma non la mano – disse –
così li aprii
comincia a camminare – disse –
così cominciai a camminare
quando arriverai a sentirti lontano abbastanza – disse –
da me
lontano da me
bhè
solo allora
potrai fermarti
aprire il tuo palmo
e guardare la forma che ha la mia nostalgia nella tua mano.
Ci fu molto tempo
che percorsi
prima di sentirmi lontano abbastanza
così tanto tempo
che arrivai in fondo alla notte
nera come il male
come il niente
e allora aprii il palmo
e nel buio denso denso
luccicò
un piccolo elefante di alabastro.