L’albicocca

  
Sul piccolo molo di travi galleggianti, tenute al fondo da corde e pietre pesanti, s’attracca la barca vecchia fatta di legnaccio, col suo odore di olio meccanico e nafta mista a salsedine. Pronta per salpare al suo giro, una turista grassa in costume due pezzi che sembra un’enorme albicocca succosa e troppo maturata al solleone, con un panino assaggiato in una mano e la borsa tenuta con l’avambraccio, sovrastata da un largo cappello da spiaggia, grida nella sua lingua a quelli rimasti a terra di sbrigarsi, ché quel contenitore galleggiante sta per salpare; solo la sua voce forte da fumatrice rompe la musica costante, acidognola e sguaiata come cani che piangono in coro, dei bambini greci che giocano sul bagnasciuga.

L’albicocca tira un grande strappo al suo panino da bar mentre nel masticarlo vistosamente gracchia un’altra frase ruvida e portentosa.

La raggiungono due ragazzine snelle, dorate, con una peluria bionda che corre dall’attaccatura del loro collo fino alla schiena elastica e slanciata.

Sono le sue due figlie, presumo. Eh sì, sono le sue due figlie, ne ho conferma.
Ho strappato una promessa al loro destino, di non divenire mai come la loro albicocca genitrice. Non sembra possibile possano avere un divenire tanto incline a decadere.

La barcaccia parte, i cani guaiscono, una coppia fa l’amore più al largo, sono convinti nessuno se ne stia accorgendo.

Non lo so perché gli volevo bene

– CON TE NO!

Grazia, mentre lo disse, lo guardò dalla testa ai piedi e ritorno, poi si diresse verso il suo banco, lo raggiunse, si voltò verso Alice e ghignò con lei come solo i bambini sanno ghignare.

Valentino ci rimase malissimo. Ancora alla Scuola elementare e già sentirsi rifiutare dai compagni di classe per così tante volte.

Già, perché non era la prima volta quella. E ci stava male. E quindi, sfogava sugli altri bambini. In maniera non certamente cauta. Li picchiava. Anche per niente.

Il motivo per cui venisse sempre respinto era da ricercare nel suo odore personale.

Valentino puzzava.

Molto.

Il 2° di 3 figli di genitori che definire poveri è far loro un complimento. Erano Leo, il più grande, Valentino e Angela, la più piccola.

Santuzzo, suo padre – gracidino, baffo nero leggermente ossigenato dal fumo delle sigarette, stempiato, guance infossate nel teschio, sguardo siculo e crocifisso d’oro al collo – in primavera apriva ricci di mare agli angoli delle strade e il resto dell’anno lavoricchiava qui e lì; Maria, sua madre –  colpi di sole sul castano scuro, un’occhio verde che se ne andava per i fatti suoi, occhialoni con la montatura finto osso rosa sporco, bassa quanto magra e bianchiccia – casalinga molto distratta e soprattutto esaurita. Motivo per cui.

Valentino aveva la faccia trapuntata di lentiggini: tantissime sul naso, che si diradavano percorrendo il viso fino alle orecchie.

Valentino aveva i dentoni da castoro, i capelli corti, rosso scuro, ruggine marcia.

Valentino non aveva la toppa.

Ognuno di noi aveva, sul grembiule, all’altezza del cuore, una toppa. La mia raffigurava un aquilone blu con i fiocchetti colorati sulla coda. Chi aveva Topolino, chi dei palloncini, chi una barchetta, chi Biancaneve, via dicendo. Valentino no.

Valentino malandrino.

A me non faceva nulla, non m’ha mai toccato.

Perché?

Perché riuscivo a resistergli! Più che a lui, al suo malodore.

Spesso mi ritrovavo suo compagno di banco, l’accoppiamento lo facevano le maestre. Lo intuirono così come intuirono che non mi sarei lamentato.

Spesso Valentino aveva atteggiamenti che lo spingevano sempre più lontano dal benvolere dei compagni di classe.

Ad esempio si scaccolava.

Lo faceva senza vergogna.

La sua produzione la potevi trovare tutta sul sottobanco. O sui tubi che componevano la sedia sul quale si sedeva e che nessuno voleva utilizzare. Perché era l’unico ad avere una sedia fissa, tutta sua.

Io la voce di Valentino me la ricordo rauca già da bambino. Sembra sempre come se avesse gridato fino a raschiarsela, ma lui si svegliava la mattina che già ce l’aveva quella vociaccia.

Non parlava molto. Però vociaccia.

Non parlava molto. Però cazzotti.

Non parlava molto. Però gli volevo bene.

Non lo so perché gli volevo bene. Tu lo sai perché vuoi bene a uno!? Non i motivi che ti hanno portato a volergli bene. Parlo proprio della sostanza di cui è fatto il bene. Quello che si porta dietro e quello che timbra il nostro bene nei confronti di quello o quell’altro, quella o quell’altra. Che lo certifica. Io non lo so.

Santuzzo spesso aspettava Valentino all’uscita di scuola. Ma non lo aspettava. Nel senso che l’ingresso della scuola confinava e confina tutt’ora con un circolo di pescatori a vozzo – di quelli che vanno a ‘inzillare’ i polpi. Santuzzo se ne stava là, col Peroncino in mano – i soldi per il Peroncino c’erano sempre – la nazionale al lato della bocca e sempre una bestemmia pronta a condire e a contribuire allo sproloquio dei compagni (Cum Panis, letteralmente: colui con cui si spezza insieme il pane (calco dal greco σύντροφος, “cresciuto con”).

Quando Valentino usciva, appunto, lo trovava lì. A casa si tornava solo dopo un altro Peroncino.

Non era chiaro come passasse il resto del tempo Santuzzo.

Personcine a modo, attorno a lui, non ne vedevo mai.

Personcine a modo, attorno a lui, non ne vedevamo mai.

Personcine a modo, attorno a lui, non ne vedeva mai, Valentino.

Verso la mia 4ª elementare, mia sorella – 7 anni più grande di me – cominciò a fare volontariato con un’associazione di ragazzi del suo liceo. Svolgevano il doposcuola per ragazzi facenti parte di famiglie al limite dell’indigenza che abitavano nel paese vecchio.

Lo faceva in casa di Titina, una signora anziana che metteva a disposizione il suo modesto spazio vitale. C’era anche il grande tavolo che costruì suo marito, venuto a mancare anni prima, per le scorpacciate domenicali nella loro ormai ancor più mancata famiglia.

Al doposcuola, una volta, ci andai pure io con lei.

Ricordo l’odore di naftalina mista aceto che occupò subito il mio olfatto, una volta scostate le tendine fatte di perline di plastica.

Attorno al tavolozzo c’erano una decina di bambini, ma anche una ragazzina dai capelli sfibrati – chissà perché ricordo questo particolare – e un grassoccio occhialuto con indosso una t-shirt con sopra scritto “DOORS” ed il faccione di Jim Morrison subito sotto.

C’era Leo.

Il fratello di Valentino.

Biondiccio scugnizzo che, a 37 anni meno del padre, già c’aveva le guance dentro al cranio. Una finestrella nera al posto di un incisivo superiore. Che mi sorrideva. Perché mi conosceva. Ogni tanto andavo a casa di Valentino a giocare o comunque lo trovavo che s’annoiava con Santuzzo, mentre Santuzzo bruciava le sue labbra con le nazionali e poi le innaffiava col Peroncino. Bruciava ed estingueva, in realtà, tutte le opportunità di un’esistenza.

Era simpaticissimo pure Leo.

Che molti adulti già chiamavano Nardino. Forse per abituarlo alla piccolezza del suo futuro.

Come Valentino, menava. Però menava quelli più grandi di noi. Era passato di grado sbarcando alle scuole medie.

Quel pomeriggio pure ci divertimmo, fecero qualche compito e poi mangiammo tutti la torta alla nutella che preparò Titina.

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Il giorno dopo.

– Oggi è chiusa la scuola – rispose mia madre quando le chiesi come mai non mi avesse svegliato quella mattina.

– Chiusa?

– Eh sì, ieri sera in Piazza Palmieri c’erano i delinquenti.

– E che centrano i delinquenti con la scuola? – non che fossi dispiaciuto del fatto di non essere andato a scuola, non ero e non sono il tipo che si dispiace per una epifania del genere, ma c’era un’aria strana nelle parole trattenute da mia madre.

Pensando a Piazza Palmieri mi venne in mente la fontana, e poi la Chiesa di S. Pietro e Paolo vicina alla fontana, e poi l’alimentari di Rita vicino a S. Pietro e Paolo, e poi la casa di Valentino vicina all’alimentari di Rita. Giocavano sempre in Piazza Palmieri. Sia Valentino che Leo che Angela.

– Perché è chiusa la scuola mamma?

– Hanno fatto la sparatoria.

Avevo già sentito parlare di questa parola: sparatoria. Neppure il tempo di pensarci e il suo significato mi si schiantò nel cervello.

Hanno fatto la sparatoria, disse mia madre. Proprio così: hanno fatto la sparatoria. Non UNA sparatoria. La sparatoria.

Come fosse prevedibile.

Ora il centro storico della mia Città è mangime per turisti.

Tutto aggiustato. Tutti i locali. Tutte le iniziative culturali. Tutto il passeggio. Sparatorie? Quali sparatorie? Ma quando mai!

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“La Città piange la scomparsa del piccolo Leo e si stringe attorno al dolore dei suoi familiari. I funerali saranno celebrati presso la Chiesa di S. Pietro e Paolo, domani, alle ore 16:30.”

Non rividi mai più Valentino.

Il giorno seguente i funerali, Valentino e quello che rimaneva della sua famiglia, furono spostati chissà dove. Protezione la chiamano. Fù dato loro un nuovo cognome e probabilmente un nuovo status sociale.

Ho bisogno di credere che la memoria di chi ha l’anima pura non possa cambiare, né cancellarsi.

Mi rimane questa foto. Mi tiene il braccio sulla spalla, Leo.

Che futuro è quello che viene concesso a noi e non a chi vogliamo bene. Da soli rischiamo di perderci, in mezzo a tutto questo schifo.

L’orbita

Kodak ColorPlus187

Ho coperto le mie mani di buone intenzioni.

Inizialmente sono riuscito a convincerle.

Credevo quasi di averle distratte.

Poi è esplosa una supernova.

Ne volavano i brandelli.

Volevano afferrarli.

Ora sono pianeti.

Le mie mani.

Attorno a te.

Diventano.

L’orbita.

Infinita.

Ben oltre le tue risate

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Non capivo Venezia,

erano giorni inquieti,

tu dormivi in un letto che,

di me,

aveva solo l’odore.

Io non c’ero,

per davvero.

Io non c’ero

perché cominciai a roteare nella stanza

di quell’hotel di Mestre.

Guardavo dall’alto la tua esse,

i tornanti pericolosi

dei tuoi fianchi,

che già sapevo

di doverci morire.

Allora cominciai a roteare nella stanza

di quell’hotel di Mestre.

La mattina tu guardasti quell’enorme palloncino

a forma di cane,

come quelli che fanno i clown per le strade.

E io ti spiegai che era un’opera di Koons,

che significava ben oltre le tue risate.

Allora cominciai a roteare nella stanza

di quell’hotel di Mestre

e la finestra era aperta

e sono andato a cavalcare l’opera di Koons.

Quando sono tornato tu abbracciavi il mio odore,

ché solo quello mi era rimasto

da poterti concedere.

Ad esempio

Ho spremuto un’oliva con le dita:

succo caldo,

profumo primordiale,

sostanza-speranza.

Ad esempio,

i tuoi occhi,

sono due olive

nere nere,

tonde,

che sfottono il mio dentro.

 

Attorno:

pelle fango chiaro.

 

Più sotto:

il tuo gusto

circondato

dal luogo santo dei tuoi baci.

 

Dentro:

la pozzanghera delle tue parole

che una volta,

una soltanto,

ha incontrato la mia preghiera

e il suo sapore.

 

Se tu sei a Sud

Se tu sei a Sud, io tiro la vela e vado più veloce.

Farei lo stesso se tu fossi a Nord.

E se fossi a Est.

E anche a Ovest.

Perché in quest’isola piccola piccola

ch’è il mio cuore dedicato,

sono un naufrago consapevole;

e così ho sempre una direzione

e un viaggio da affrontare

prima di attraccare

sul continente dei tuoi occhi.

La mia idea di Alessia

Eravamo tutti dodicenni o giù di lì. Giù di lì nel senso che potevamo avere meno di dodici anni, non di più. Tranne uno, Mauro, che di anni ne aveva tredici.

C’era l’abitudine di giocare nel cortile sul quale si affacciavano gli alveari che, per pigrizia e convenzione linguistica, vengono chiamati Case. Caseggiati. C’era una gerarchia fondamentale, i più grandi che le davano, i più piccoli che le prendevano e poi quelli come me, che nel mezzo né le davano, né le prendevano. Forse qualche volta le ho date anch’io, ma non le ho avute. Forse sì, ma probabilmente non riesco a ricordarmelo per l’abitudine ammaestrata che ho di rimuovere tutto ciò che di pessimo mi accade.

Si giocava a biglie provocando un buco nell’asfalto del parcheggio con dei pezzetti di ferro trovati qua e la’. Si giocava a lunga con le figurine dei calciatori Panini. Si giocava a calcio con le regole inventate, esistevano clausole come alta e giocassolo. Si giocava a litigare. Si giocava a parlare delle ragazzine. Si giocava a creare i falò per la notte di S. Giuseppe, quando si lavorava fianco a fianco con i più grandi, ragazzi di quattordici e anche quindici anni, che ai nostri occhi erano vecchi saggi, con chissà quali responsabilità planetarie. Si giocava a fare le crocette intrecciate con i cuori di palma, da vendere a Pasqua di porta in porta. Una volta arrivai a mettermi in tasca la bellezza di quattordicimilalire, un patrimonio. Ricordo che, il giorno dopo, con quei soldi andai di corsa a comprarmi un gioco per il Game Boy. Insomma, si giocava.

Poi da Mauro arrivò l’idea che fece tremare le gambe a tutti noi pivellini: una festa con le ragazze.

La chiesa del mio quartiere fittava delle stanze che aveva dalla parte del convento. Proprio alle spalle dell’abside. Non a scopo abitativo, ci facevano piccole feste, riunioni, corsi e il catechismo. L’inspiegabile catechismo. Non riuscivo proprio a capire come mai Gesù avesse detto delle cose in un libro e noi ne dovessimo studiare un’altro. Il catechismo della Chiesa Cattolica, appunto.

Mauro, con altri due ragazzini andò a parlare col sagrestano per sapere come si potesse fare per occupare quelle stanze per una sola sera e quanto ci venisse a costare. Suo cugino più grande aveva già festeggiato il suo compleanno lì e lui notò che c’era già lo stereo. Fondamentale. Il fine ultimo era ballare con le ragazze, visto che di farci dei discorsi sarebbe stato assurdo. A malapena le conoscevamo di vista, figuriamoci parlarci. Le conosceva Mauro, lui ci scambiava addirittura due battute quando capitava loro di passarci vicine. Era forte Mauro, un uomo. Mica come noi altri.

Tornando, ci disse che si poteva fare e avevamo una settimana per organizzarci. Che poi, organizzarsi, per quel poco che c’era da fare. L’organizzazione consisteva nel cercare la musica adatta, i giochi da fare e la roba da bere. Per il cibo, chiaro, avremmo mangiato ognuno a casa propria. Alla fine le mamme si occuparono di comprare qualche Fanta, Coca Cola e 7up. La 7up!

Doveva essere Primavera, perché le nostre magliette si inzuppavano con una facilità estrema. Non era Estate, perché altrimenti le magliette non le avremmo avute neppure.

In quella settimana quasi me ne dimenticai, della festa. Per giorni non scesi a giocare perché mi venne una cosa che il medico chiamò ringotracheite. Quasi mi piaceva ringotracheite, mi sembrava di essere uno dei Beatles. Che stronzata!

Arrivò il Sabato. Il pomeriggio, dopo i compiti che dal sottoscritto spesso e volentieri venivano rimandati mollemente alla Domenica sera, scesi giù. C’era un nervosismo che percepii come comico prima e allarmante poi. Tutti con le buste. Aspettavamo Mauro. Mauro arrivò. Senza neppure il suono di uno scappellotto ci mettemmo sulla strada che portava al luogo dove avremmo tenuto la festa. Delle ragazze che ci sarebbero state ne conoscevo solo un paio. Conoscevo, parolona. Diciamo che avevo nella mia testa la loro immagine perché anni prima frequentavamo lo stesso asilo.

Fummo lì. Uno stanzone bello grande. Pareti gialle e soffitto bianco. Due lampadine segnavano i punti luce, penzolavano attaccate direttamente ai fili della corrente. Ogni volta che uno entrava sbattendo la porta, si mettevano ad oscillare. Qualcuno cominciò a farlo apposta.

Fabio spazzò il pavimento con la scopa che trovammo lì stesso.

Leo con la paletta raccoglieva e buttava ciò che Fabio spazzava nel grande cestino che si trovava subito di fianco all’ingresso.

Io, con Piero e l’altro Fabio, sistemai i tavoli. Erano ripiegabili, di legno e ci guardavano dal fondo della stanza. Li portammo al centro. Li aprimmo. Li sistemammo per lungo, come a formare un’isola al centro della stanza. Srotolammo la tovaglia di carta, aveva un motivo con delle ciliegie. Posammo i piattini, li riempimmo con delle patatine e poi fu il turno delle bibite. Ebbene. C’era, tra il resto, una confezione di 3 Peroni da 33. Ci guardammo increduli, poi assieme ci voltammo verso Mauro. Ci guardava. Sorrideva. Capimmo.

Si fecero le 18, cominciava a tramontare. Io avevo addosso un paio di pantaloncini jeans strappati qui e lì, di quelli da battaglia. Li usavo quando c’era da far casini giù in cortile. Le gazzelle rosse che mi feci comprare un paio di mesi prima perché le aveva mio fratello. Già distrutte. E una t-shirt. La t-shirt era di un inserto mensile che usciva con un qualche quotidiano o settimanale. TUTTO MUSICA. Era bianca. Sopra c’era disegnato un grosso orologio con al posto delle lancette, chitarre. La scritta TUTTO MUSICA era composta come quella di Never mind the bolloks dei Sex Pistols, con delle lettere prese da giornali, ritagliate e messe una di seguito all’altra a formare le parole. Durante l’apertura dei tavoli, però, non riuscendo a sganciare il meccanismo che teneva chiuse le due parti piegate, mi tagliai. Giusto qualche goccia di sangue Una ferita da nulla che prontamente tamponai con la maglietta di TUTTO MUSICA. Lo feci perché eravamo tutti d’accordo che, ad una certa, avremmo lasciato tutto pronto e ci saremmo concessi una mezzoretta per andarci a lavare, prima che fossero arrivate le 19. Orario dell’appuntamento.

Macché, Mauro si andò a lavare mentre noi sistemavamo le ultime cose e non tornava. Qualcuno doveva pur rimanere lì a sorvegliare la situazione. Gli altri pure, una quindicina di minuti dopo che Mauro se ne fu andato, piano piano cominciarono a dissolversi come il fumo di una sigaretta con la bora. Rimasi lì spazientito. Fuori qualcuno aveva sistemato uno stereo. Uno di quelli seri. Aveva persino il lettore per i Compact Disc. Lo stereo fu sistemato all’esterno perché li avrebbe avuto luogo il clou della festa. Il gioco della spazzola. Con la musica. Con le ragazze. Vagamente avevo intuito di cosa si trattasse.         Mentre pensavo a come si sarebbe potuto svolgere il tutto, in quale successione sarebbero avvenute le presentazioni, il ballo, il gioco e le bibite, ecco Mauro.

“oh! ma solo io ‘sto ancora così.. che cà.. ” – dissi.

“Embhè!?”

“EH! Tutti a lavarsi a cambiarsi e io così, con la maglia sporca di sangue, tutto sudato e sono quasi le sette.. ”

“Embhè!?”

“Che embhè!?”

“Stai beeeeneeee. Il sangue neppure si vede, sembra faccia parte della maglia. Sineee, stai bene cosìììì.. ”

“Così!?”

“Così, sì, stai bene. Capirai”

Non capii quel ‘capirai’, me lo buttai alle spalle come non fosse importante e decisi che sì, sarei rimasto così, tanto ..

Arrivarono gli altri. Forse non avevo mai visto tutti i ragazzi del quartiere così tirati. L’altro Fabio aveva addirittura il gel. Ai miei occhi avrebbero tutti potuto presentare la grande notte degli Oscar.

Cominciarono ad arrivare le ragazze. Alcune accompagnate dai genitori fin dentro, fino al cortile di fronte allo stanzone. Le 3 birre, furono nascoste. Neanche fossero droghe pesantissime.

Le presentazioni non furono fatte.

Mauro le conosceva tutte.

Tutte conoscevano Mauro.

Tutte guardavano Mauro.

Mauro guardava tutte.

Noi altri rimanemmo un po’ in là.

Piano, prima le ragazze, poi noi, ci avvicinammo al tavolo. Mangiammo quel poco di patatine che le ragazze ci avevano gentilissimamente lasciato. Cominciammo a bere ciò che c’era da Bere. Mauro parlava con Chiara, la ragazza più bella. Lo guardavamo con ammirazione. Sembrava essere un uomo navigatissimo. Sapeva come guardarla, perché lei delle volte arrossiva vistosamente. Chissà cosa si dicevano. Mauro tirò fuori la prima birra. La bevve in mezz’ora. Dopo la seconda andò ad alzare la musica. La musica. Con la emme minuscola. Io ero abituato ad ascoltare mio padre che la Domenica mattina ci svegliava tutti mettendo sul piatto del giradischi il Bolero di Ravèl. Mio fratello che si sparava a palla Nirvana, Sex Pistols, Pearl Jam e Soundgarden. Mia sorella fissata di Vasco e Carboni. Mia madre che tra Modugno, Mina e Battisti me le cantava tutte fin da bambino. Ero certo di poterla chiamare musica con la emme minuscola. Microscopica, anzi. Ricordo, a coronamento della qualità musicale della quale si stava facendo scempio, gli 883. Già, gli 883. C’era addirittura un loro cd O R I G I N A L E su quello stereo maledetto.

Insomma, la cosa scivolava così. Alla t-shirt da schifo, non ci pensavo neppure più.

 

“Allora .. ” – urlò Mauro salendo su una sedia di plastica – “.. mo facciamo il GIOCO DELLA SPAZZOLA!” – il nome del gioco lo gridò fortissimo.

Nessuna reazione. A Mauro non importava.

“Create le coppie!” – proseguì, e come se avesse parlato l’imperatore dell’universo, con tutto l’imbarazzo del mondo, ognuno prese a sé una delle ragazze. Mauro mi si avvicinò e mi porse la scopa utilizzata da Fabio un paio d’ore prima per pulire la stanza. Poi mi fece – “Questa sarà la nostra spazzola, comincia tu!” – mi sorrise e io rimasi con la scopa a mezz’aria.

Il gioco della spazzola consiste nel creare delle coppie. Si danza. Uno rimane fuori, con la spazzola in mano, gira per le coppie che ballano, sceglie la ragazza con cui fare coppia e da la spazzola al ragazzo che sta danzando con lei. A quel punto, colui che ha ricevuto la spazzola dovrà cercarsi un’altra ragazza, che non sia quella appena lasciata.

Nonostante la musica non fosse propriamente ballabile, tutti se ne stavano avvinghiati come se stessero facendosi il lento più lento della storia dei lenti. Sembrava nelle orecchie avessero degli auricolari da cui fuoriusciva tutt’altro.

Cominciai a girovagare tra quei ragazzi infighettiti e quelle ragazze profumate. Mi sentivo fuori luogo. Praticamente, lo ero.

Porsi la spazzola/scopa all’altro Fabio. Non perché avessi particolarmente notato la sua partner. Lo feci semplicemente perché sapevo che l’altro Fabio non mi avrebbe sputato addosso nessuno sguardo micidiale, non avrebbe fatto commenti e un po’, avrebbe capito la situazione. Mi avvicinai e lui capì, neppure il tempo di raggiungerlo e lui s’era già staccato. Sorrise pienamente consapevole della funzione del gioco. Afferrò la scopa.

Non me ne resi conto, quando girai la testa smettendo di guardare l’altro Fabio ero già vicinissimo a lei. La guardai, feci un’esposizione dei miei denti, sarebbe dovuto essere un sorriso. Lei invece, portò dolcissimamente in alto gli angoli della sua bocca. Mosse il mento come per avvicinarmi, sollevò le sopracciglia e io mi sentii sprofondare. Improvvisamente mi ricordai della mia maglietta TUTTO MUSICA macchiata di sangue, del fatto che non fossi tornato a casa a lavarmi come gli altri, del fatto che probabilmente risultai lo sfigatone di turno fin dall’inizio della festa e di tante altre menate. Me ne scordai immediatamente quando lei mi poggiò la sua mano sulla spalla. Quel movimento provocò uno spostamento d’aria profumatissimo. Dev’essere questo l’odore degli angeli – giuro, pensai questa cosa stupidissima. Con la maglietta TUTTO MUSICA macchiata di sangue. Cominciammo a ciondolarci a destra e sinistra, come un pendolo. Io le tenevo le mani sui fianchi, un po’ più in sù. Passò un minuto che sembrò un millennio e lei fece pressione con la sua mano. Capii, non so come, che potevo avvicinarmi. Capii che non si ballavano così i lenti. Capii che probabilmente, ad un certo punto, avrebbe addirittura potuto poggiare il suo viso sulla mia spalla. Con la maglietta TUTTO MUSICA macchiata di sangue.        Le mie mani si mossero naturalmente, con l’avvicinarmi. Finirono con l’intrecciarsi e si posarono sui suoi capelli. I suoi capelli lunghissimi. Fino al sedere. Per un istante credetti di averglieli tirati leggermente, feci per ritrarmi un poco e le sussurrai uno “scusa!” più veloce della luce. Mi guardò, non le sembrava le avessi tirato i capelli. Arrossii mentre mi rendevo conto che quella, probabilmente, era la prima volta che toccavo i capelli di una ragazza. Non una bambina di cui si millanta l’amore a 5 anni. Ma un’adolescente, una ragazza. Grande quanto me.

“Cambio!” – Piero era dietro di me. Con la scopa.

Lasciai andare i fianchi di quella che poi scoprii chiamarsi Alessia.

Il resto fu inutile, non ricordo neppure le altre ragazze con cui ballai. Ormai ero un esperto del lento, dopo Alessia.

La festa finì dopo circa un’ora buona. Comunque non ricordo nulla di ciò che ci fu dopo. Probabilmente facemmo quel gioco fino alla fine, ma non m’importava. Neanche per niente!          Tornai a casa, buttai la maglietta TUTTO MUSICA macchiata di sangue nel cesto delle robe sporche nel bagno di servizio. Corsi in camera. Presi un blocchetto di fogli e cominciai a scrivere:

 

“Credo di essermi innamorato.. lei si chiama Alessia.. e non saprà mai niente.. è bellissima, ha i capelli lunghi fino al sedere e mi guardava. Mi sono innamorato.. “.

 

 

Posso dire che il fatto di essermi innamorato per la prima volta coincide con il momento in cui ho ballato con una ragazza, la prima volta. Le ho annusato i capelli per la prima volta. Le ho sfiorato i capelli, per la prima volta. Mi ha abbracciato, per la prima volta. Mi ha sorriso una ragazza, la prima volta. Ho scritto le mie emozioni, per la prima volta. Ho annusato la sua pelle, per la prima volta.

Il giorno dopo, pur consapevole che la cosa sarebbe finita in una nuvola di fumo, fui felicissimo. Fui felicissimo per l’intero mese. Fui felicissimo, fino a che non mi accorsi che mia madre aveva gettato la maglietta TUTTO MUSICA perché macchiata di sangue. Avrei voluto metterla ancora, per possedere la sensazione, l’illusione di sentire il profumo della sua pelle.          Non la rividi più.

Tempo fa mi aggiunse su facebook.

Lei mi aggiunse su facebook.

Io non la riconobbi, ci parlammo per un po’. Ci dicemmo delle amicizie in comune. Guardai le sue foto e.. Alessia. Non l’avevo riconosciuta. Le dissi tutto. Lei non ricordava. Nulla di nulla. Era ancora più bella.

La mia idea di Alessia era più forte della realtà.

Ho perso

L’ho guardata e sono uscito.

Avevo l’immagine di lei fissa lì, come l’ultimo fotogramma dell’ultima pellicola dell’ultimo film al mondo.

Era stesa sul divano, guardava fiera quello che restava sul letto, guardava fiera quello che avrei dovuto ancora mettermi addosso per dirmi vestito.

– Così te ne vai.

– Così me ne vado.

– E cosa rimane?

– Nulla rimane, so cosa ho lasciato, ma non rimane niente.

– Niente?

– Niente! Quello che mi hai dato è stato solo quello da cui sei voluta fuggire.

– Ma che dici? Discorso da telenovela.

– Sarà, ma le telenovela dovranno pur essersi ispirate a qualcosa.

– Stronzate!

– Comunque non è vero..

– Cosa?

– Quello che tu pensi di me, adesso.

– E cosa penso di te adesso?

– Pensi che io sia quella lì, quella che non ti conosce, che è così e basta, che finisce tutto.

– Mi hai detto mille cose prima, tutti i discorsi che facevi, tutto quello che dicevi di adorare di me: la voce, lo sguardo, i movimenti delle mani, le parole. Ma dopo tutto non rimane nulla. Perché dopo tutto quello che abbiamo desiderato resta sempre nulla. Hai mai visto un bambino che dopo la sorpresa non ne desidera un’altra?

– Che centrano i bambini ora?

– È così, dai, restiamo così, ne abbiamo parlato. Abbiamo tutto dei bambini, tranne l’arrendevolezza.

– L’arrendevolezza?

– Sì, l’arrendevolezza. I bambini si arrendono alla loro età, noi invece non abbiamo niente a cui dare conto. Ti sembra poco?

– Io mi sto rivestendo. Abbiamo fatto l’amore. Perché tu sesso, questo, non puoi chiamarlo. Riesci a chiamarla arrendevolezza?

– No, ma restiamo bambini. Non hai voluto quello che desideravi?

– Affatto.

– Cosa desideravi?

– Te!

– Nooooo, non desideravi me. Desideravi l’idea di me.

– L’idea di te sei tu. Non dire cazzate. Tu sei quello che sembri, mai il contrario. Noi siamo sempre quello che sembriamo. Non abbiamo nessuna possibilità di essere quello che siamo davvero. Altrimenti sarebbe come se tu mi avessi detto di rimanere con te, per sempre, ora.

– Per sempre?

– Vedi!? Non sai essere quello che vuoi!

– Hai bevuto troppo.. io dico.

– Io dico, invece, che tu adesso saresti dovuta essere il mio corpo.

 

Lui se ne andò, lasciò il suo odore e niente più.

Lei si alzò, aprì la finestra, il fresco della notte le colpì il seno e piano, schiuse le labbra sussurrò – ho perso.

Partimmo

Come profuma il legno delle biblioteche antiche, quelle che sono sempre state biblioteche, quelle che non hanno mai cambiato destinazione d’uso, oppure è puzza, bhò – questo pensavo quando entravo in quella di Montichiari. La ricerca per conto dell’università aveva l’andatura di un pachiderma, avrei dovuto archiviare tutti i testi riguardanti l’alluvione, la frana e il conseguente abbandono dell’antico centro del paese, che anni dopo, verso la metà degli anni 20 del ‘900, venne rifondato e ricostruito un paio di kilometri più a valle. Avrei dovuto finire il lavoro entro le festività natalizie, già, avrei dovuto. A metà di Novembre non avevo completato la consultazione di neanche la metà dell’intera biblioteca. Gli unici edifici rimasti in cima a Montichiari vecchia erano il Bar di Tancredi con i suoi consueti tre avventori che consistevano nel parroco, nel fratello di Tancredi e nel gatto randagio grigio – tutti e tre con i loro sguardi diffidenti e indagatori – e appunto l’antica biblioteca. Quando pedalando fiaccamente con la mia rumorosa, arrugginita Bottecchia da donna, arrivavo nella piazza vuota e silenziosa, mi riposavo qualche minuto per riprendere il fiato. L’aria gelida mi creava un pizzico, piccolo e acuto, in fondo alla gola, la sentivo raccogliersi sotto il palato e aggrapparsi alla laringe. Nella piazzetta fantasma percepivo il solido e gelido abbraccio delle case abbandonate e del marmo grigio della chiesa madre, matriarcale e severa nella sua facciata settecentesca.

Era tutta là Montichiari vecchia, minuscola che pareva la bomboniera di un battesimo mai celebrato.

Quella mattina mi svegliai almeno un’ora prima del solito, di soprassalto, ma non capii mica perché, se per un incubo o per un rumore in strada. Comunque feci tutto secondo la tabella di marcia che mi autoinfliggevo da lì a qualche mese ad ogni risveglio. M’alzai dal letto e mi scaraventai davanti al lavandino e io non mi guardo mai allo specchio senza prima essermi bagnato la faccia con l’acqua gelida e così feci, solo dopo verificai che non ci fossero residui di sonno inquieto negli angoli interni dei miei occhi. Come sempre mi coccolai l’asciugamani per qualche secondo e cambiai stanza, anzi, l’altra stanza, visto che la mia casa di Montichiari era un bilocale. Il cucinino era a gas e ad ogni accensione buttava fuori una puzza da voltastomaco, mi ripetevo in continuazione che avrei dovuto farlo controllare, cosa che, ovviamente, non feci mai. Quella volta, dalla moka, il caffè uscì lento e odiai la divinità che decide quando far uscire il caffè lento e quando farlo uscire denso e questo grande accadere succede spesso, nonostante io ci metta sempre la stessa quantità e qualità di caffè e la stessa quantità e qualità di acqua. Così lo rifeci e finalmente uscì come dicevo io. Mi versai il mio secchio d’acqua fresca e mi sedetti col caffettone al tavolo gracilino della cucina. Non accendevo mai la tv la mattina presto e così non l’accesi neppure quella volta; me ne stetti in silenzio a guardare nell’universo della caffeina necessaria.

La nebbia se ne stava lì a ricordarmi ancora una volta che il sole, nel caso si fosse palesato, l’avrebbe fatto non prima di mezzogiorno.

Vabhè, mi dissi, in biblioteca non ci entra la nebbia e non ci entra il sole. In realtà me lo ripetevo ogni giorno e ogni giorno era lo stesso, tutto come ho detto, tutto in fila come ho detto. Quella volta, nonostante l’alzataccia, feci persino ritardo rispetto alla solita tabella di marcia. Non che avessi un cartellino da timbrare, ma neppure potevo permettermi grande relax con tutto il lavoro che c’era ancora da portare avanti. Non riuscivo a trovare la chiavetta del lucchetto che chiudeva la catena della bici. E difatti non la trovai. Dovetti farmi da Montichiari nuova a Montichiari vecchia a piedi, la nebbia somigliava al velo di una sposa, così fitta che faceva diventare tutte le cose ai lati della strada come fossero in un sogno antico e un po’ spettrale. A 500 metri dalla biblioteca poi, muovendo le dita nella tasca del montgomery nel tentativo di riscaldarle, ecco tintinnare la chiave. Questo non fece che rendermi ancora più cupo e mortificato di quanto già non fossi.

Marlinda, la signora custode annoiata e analfabeta, si rinchiudeva nelle sue cose da fare che non si capiva mai quali realmente fossero, ma tant’era, nessuno sarebbe andato a farle discorsi sulla fortuna di avere un lavoro come quello e sul tenerselo stretto, eccetera. Nessuno chiedeva libri che poi avrebbe dovuto riportare, quindi non c’erano titoli da risistemare su un qualche scaffale. Spolverava con l’asciugacapelli, per capirci.

Ogni mattina entravo e come ogni mattina – Buondì! – pieno di falsi positivi propositi e come ogni mattina un cenno del mento di Marlinda a fare da risposta.

Ogni mattina, mentre io mi arrampicavo sugli scaffali in cerca della sua storia, lei rimaneva dietro al bancone pensantissimo su cui poggiava la sua borsa, il limaunghie e le sue rivistacce di cronaca rosa.

Ogni mattina non mi controllava mica, no no, l’ho detto, se ne rimaneva lì, immobile la trovavo e immobile la lasciavo alla sera. Che non la vedevo arrivare e non la vedevo neppure andar via, ad un certo punto arrivai addirittura a pensare che vivesse dentro alla biblioteca. Avrei potuto portarmi a casa l’intero edificio, con i muri e tutto quanto e lei non se ne sarebbe accorta. Sarebbe rimasta lì, al gelo, con le sue abitudini dozzinali.

Ogni mattina tutto questo.

Ogni mattina ma non quella.

– Buondì! – nessuna risposta, come sempre, ma quello che mi fece strano non fu quello, piuttosto il fatto che sul bancone c’erano la borsa, il limaunghie e le rivistacce di cronaca rosa, e che dietro di esso non ci fosse seduta Marlinda.

– BUONDÌ! – rincarai.

Niente.

Con l’espressione “bhò” avanzai verso lo scaffale in fondo, quello da cui avevo lasciato la sera prima. Sento il suono di passi calmi. Diminuisco il peso dei miei e cerco di ascoltare meglio e sicuramente, il suono dei passi di Marlinda, non erano! Così decisi di deviare ed entrare nel reticolato formato dall’urbanistica degli scaffali centrali.

– ..hey.. – un sibilo dal nulla, sembrò più fiato che suono e difatti era Marlinda, fantasma anche la sua voce, che facendomi un gesto con la mano mi chiamava dalla sua parte.

I suoi ricci erano stretti e vicini, così vicini che si radunavano in ciocche, che verso le punte diventavano boccoli. Piccolissimi che la texture che creavano pareva l’oceano increspato visto da 2.000 metri d’altezza, anzi, da un satellite. Il suo castano tendeva al rossiccio, diventava più chiaro ogni volta che si spostava più verso la luce giallo-calda che pendeva quieta dal soffitto. Lo stesso scherzo di colori avveniva attorno alle sue pupille. Il taglio dei suoi occhi è sempre stretto, perché sempre sorride. Le sue lentiggini, costellazioni rade sulle guance, diventano una fittissima pioggia di asteroidi mano a mano che s’avvicinano al naso piccolino. Muoveva le mani in maniera gentile, con le sue dita bianche e sottili, a volte sembrava volesse afferrare l’aria. Ogni tanto, involontariamente, con il polpastrello dell’indice destro, si premeva la fossetta della guancia sinistra e poi con il pollice si accarezzava le labbra fiorite, sottili e rosa. Lo faceva soprattutto mentre leggeva i titoli dei libri sugli scaffali.

Era la prima volta che la guardavo e immediatamente percepivo tutte queste cose. Sentivo il bisogno di trasformare questo che avevo notato, in ricordi.

Successe che Sonia, così si chiama, pure lei se ne venne a Montichiari, le serviva conoscere le stesse cose che interessavano al sottoscritto, lei però lavorava alla sua nobile tesi – “Dissesto turistico e riqualificazione sociale nei paesi fantasma. Utopia o opportunità?”. Seduti fuori, all’unico tavolino del Bar di Tancredi, con la scritta Algida sbiadita dai gomiti, nella mia prima pausa caffè a Montichiari vecchia da quando ci sono arrivato, la sfogliai. Sonia, oltre a dirmi della tesi e del motivo della sua apparizione – perché sì, la sua fu un’apparizione -, mi parlò di quanto bello fosse il paese, che profumava, che in vecchiaia ci avrebbe persino vissuto in una di quelle case, magari con un camino acceso e la sicurezza che non possa crollare da un momento all’altro, mi disse che lei ha finito gli esami prima del tempo, che adesso poteva star tranquilla con la tesi e permettersi di girare l’Italia per un paio di mesi, mi confessò anche che riusciva a farlo perché stava bene-di-famiglia, che poi avrebbe inseguito il sogno di riabilitare, con i suoi progetti, i paesi abbandonati attraverso iniziative turistiche, magari patrocinate dal ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo visto che suo padre, a quanto ho capito, ha delle conoscenze piuttosto “alte”. E io, scemo, che le rispondevo chiedendole ogni volta – perché? – e lei diceva cose con la voce bella che ha, che poi, la verità: mi sarebbe bastata pure solo quella, senza gli argomenti, solo starlo ad ascoltare, il suono suo. Avrebbe potuto cianciare, sarebbe stato lo stesso tutto quel tutto.

Che io neppure volevo innamorarmi, che non feci in tempo a costringermi a non farlo che successe, come succede di starnutire mi scappò l’amore. Ché innamorarsi così, a prima vista, è proprio da deficienti, da adolescenti, da imbecilli, da ingenui, perché poi rimane la posa della realtà, i rimasugli della verità, di come stanno davvero le cose, che non stanno mai come vogliamo e insomma, mi facevo tutte queste menate qua e mentre me le facevo, all’improvviso, le sue labbra, anzi, la sua voce, anzi, il suono suo, tuonò – ma tu!?.

– Eh, ma io, Sonia. Io sono un cretino, Sonia. Io sto facendo ‘sto progetto in università, Sonia, che mi servirà solo a prendere i crediti per potermene stare con il minimo dei voti agli altri esami. E in realtà mi sto anche rompendo qua da solo, Sonia. A me non frega nulla di tutta ‘sta disgrazia, e non ne posso più di Marlinda, delle salite in bici col gelo nelle sinapsi, degli sguardi dei 3 al Bar, compreso quel gattaccio della malora e non ne posso più del freddo umido, della nebbia che rende tutte le cose senza vita, della salita con la Bottecchia scassata a prima mattina, che io non volevo venirci a Montichiari. – questo avrei voluto dirle. Sapete invece cosa le risposi? Ebbene, le dissi che mi piaceva molto tutto e che la biblioteca aveva un buon profumo, anche se il personale all’interno è fin troppo silenzioso, perché lavorare ogni giorno nel silenzio assoluto può portare alla pazzia e le dissi che d’altro canto questa condizione mi permetteva di lavorare concentrato e in modo veloce. Le parlai del progetto della mia università, del mio compito di catalogare tutte le informazioni circa la frana e l’abbandono del paese, del fatto che fossi molto avanti con la ricerca dei volumi-tomi-libri che trattavano il caso, le parlai del piacevolissimo fresco Montichiarese e mentre le gettavo addosso tante altre diplomatiche, deplorevoli, reprensibili, giuste, ottimistiche, non vere parole di gioia e marcia soddisfazione circa la mia situazione, lei mi interruppe

– Non è vero!

– Cosa?

– Non ti credo!

– Che?

– Proprio non riesco a crederti. Mi dici che stai bene qui, che ti piace tutto, che lavori bene, ma Marlinda m’ha detto tutt’altro. Dice che spesso ti sente parlare solo in biblioteca, sbuffare e addirittura bestemmiare.

– Marlinda?

– Sì, Marlinda. La custode.

– Ma che ne sa lei?! Non fa altro che leggere le sue bassissime riviste rosa, che ne sa!? E poi, scusa, com’è uscito il discorso tra voi due? Che centro io? Perché proprio io nel discorso?!

– Perché stamattina le ho chiesto se la biblioteca fosse sempre così vuota e quindi, sai, l’unico a frequentarla sei tu e ti lascio immaginare il resto..

– E perché mai dovrei immaginarlo? Ti ha fatto una pessima presentazione del sottoscritto, ha detto che sono uno schizofrenico, nervoso, bestemmiatore e per giunta che parlo con me stesso ad alta voce. Dimmi almeno se ti sembro quello là, quello che Marlinda t’ha descritto.

– Ma non lo so, ci conosciamo da due ore.

– Ah – e aveva ragione, mi sentivo sempre più stupido – allora magari io, così, tornerei in biblioteca per continuare il mio lavoro, se non ti spiace.

– Certo! – fece Sonia e accompagnò l’esclamazione piegando la testa da un lato, spalancando gli occhi e aprendo la mano in direzione della biblioteca.

Feci cenno a Tancredi che sarei passato dopo a pagare, lui rispose con un occhiolino e poi mi congedai da Sonia – ci vediamo dentro, allora – feci con la mano il saluto militare sulla fronte e mi sentii estremamente patetico nel farlo.

La sentii rientrare una mezzoretta dopo e mi chiesi cosa avesse potuto mai fare in quei trenta minuti. Da Tancredi? Un altro caffè? Beveva molti caffè, quindi? Smisi di chiedermelo e continuai ad impolverarmi i polpastrelli tra gli scaffali del piano soppalcato. Di lei, per le restanti 4 ore, sentii solamente qualche passo che riverberava tra il vuoto e il pavimento a scacchi, poi niente più. Niente più perché quando scesi che era ormai sera, la trovai seduta al tavolone centrale, con l’abatjour col vetro verde accesa. Leggeva, ma quando intersecai la sua traiettoria rimasi letteralmente sconvolto dal fatto che lei mi stesse aspettando con lo sguardo, guardava già nella mia direzione. Era una cosa importante per me, eh. Vabbhè che c’eravamo io, lei e quella vipera di Marlinda, ma per un momento sono stato più importante di quei volumoni aulici e così preziosi.

Le feci segno con la mano che stavo per prendere la strada di casa, non pronunciando, ma solo mimando la parola “vado!” con le mie labbra. Lei mi indicò, poi fece la mossa di avere le mani su un volante e mimò “hai auto?” con le sue labbra. Io “no!”. Lei “Ah”. Poi indicò se stessa e mi fece un movimento con il suo palmo come a dire “aspetta”. Aspettai, mise le sue cose nell’enorme borsa nera, chiuse il libro e lo mise in cima ad una colonna di altri quattro o cinque volumoni. Soffiò un “andiamo!”, salutammo all’unisono Marlinda che strizzò gli occhi sospettosa e uscimmo dalla biblioteca. Subito fuori Sonia, mettendosi il cappuccio che a malapena riusciva a far arrivare alla fronte vista l’enorme massa dei suoi capelli, mi fece – allora, hai l’auto? – feci no con la testa e aggiunsi – di solito ho una bici, ma questa mattina qui ci sono arrivato a piedi. Non ci credo! – fece lei. Eh, dovrai crederci – feci io – per questo oggi ho cominciato in ritardo, non trovavo la chiave del catenaccio che tiene la bici legata alla ringhiera del sottoscala di casa mia, ovvero, queste – la uscii dalla tasca. Poi lei sorrise di un sorriso che mostrava tutta la superficie panoramica delle sue labbra e mi fece cenno di seguirla. Aveva l’auto fuori l’arco che dava l’entrata al centro abitato di Montichiari vecchia. Nel tragitto verso l’automi disse che aveva preso casa subito fuori Montichiari nuova, poi mi chiese dove abitassimo io e la mia bici e dopo non dicemmo nulla più. Una bella Alfa Mito rossa fiammante. Diedi una smorfia di soddisfazione serrando le labbra e lei sorrise di nuovo di quel sorriso.

Partimmo.