Fuori di terra bagnata, dentro di legna bruciata

Mi piaceva posare i miei giorni sopra i tuoi,
vivere di una vita piccola ma confortevole.
Mi piacevano i giorni che mi offrivi
come fossero paste di crema della Domenica.
Quei giorni profumati
fuori di terra bagnata,
dentro di legna bruciata,
di casa di campagna
di ‘900.
Io mi ricordo,
restavo a domandarmi
come facessero a essere così belle
le tue sopracciglia disordinate.

Sono stato molti amori,
ho contratto molti baci,
e redento i miei rancori
ma mi piaceva posare i miei giorni sopra i tuoi.

Tu sei fatta di vento

Mi piace immaginarti
seduta di fronte a me
in una tavolata felliniana.
Mi fai pensare
ad un’enorme tavolata felliniana di campagna,
di quelle con la tovaglia a quadri;
spesso mi rimandi a questa immagine:
il tuo vestito antico,
così leggero
che sembra fatto di vento come te,
i tuoi piedi scalzi,
il tuo sguardo malandrino,
la tua sigaretta incerta
appesa all’angolo delle tue labbra,
la tua voce bambina,
le tue mani piccole e veloci,
il tuo sguardo distratto,
come distratta sembri tu.
Sembri.
Un’enorme tavolata felliniana, sei.
Tutta quella gente al nostro convivio
e tu che mi sei l’unica scenografia.
Il grano brucia al sole,
come io brucio alla tua luce.
Equazione Naif.

Ecco il tempo che sa curare

Ecco il mio cuore in fiamme.
Ecco il mio sorriso più vero.
Ecco la mia mano sul tuo fianco
sul lungotevere.
Ecco la premura che ho provato
quando credevi ti stessi braccando.
Ecco il riflesso della luna
sul tuo corpo d’amianto.
Ecco le tue spalle nude
che non sanno affrontare il mondo,
che io ero pronto ad affrontare per te.
Ecco la tua malattia
che io ero pronto a contrarre.
Ecco il suono del mio nome
tra le tue labbra.
Ecco il suono del tuo nome
tra le mie labbra.
Ecco il tuo cancello,
sempre chiuso,
sempre chiuso.
Ecco quello che non sarai mai
e quello che saresti potuta essere.
Ecco le lenzuola stropicciate del mio amore per te.
Ecco il gioco del destino,
che gioca sporco.
Ecco quello che lasci
e che crederai di trovare altrove.
Ecco le tue parole inutili,
la causa vera di ciò che perdi
e che continuerai a perdere.
Ecco il mio ultimo sacrificio
sull’altare delle tue attenzioni.
Ecco il tempo che sa curare.
Curerà te,
curerà me
e io alzerò il mento
al posto tuo.

Posso tenerti?

Tu
dimmi,
mi hai visto?
Conservo tutto,
ho granelli di polvere
che ho raccolto dalle tue cose.
Ho granelli di polvere di ogni tipo.
Terrò da parte i disegni che le ombre
disegnavano sulle tue guance
ogni volta che per me
smettevi di brillare.
Posso tenerti?
Non puoi
sempre
dirmi
no.

Vieni a visitare il mio dolore

Vieni a visitare il mio dolore,
conservo le sante reliquie
delle volte in cui non ho capito.

Ho un bellissimo affresco
di Myriam che mangia il mio cuore
mentre io le bacio le parole.

Poi c’è un’enorme collezione
di piccole gocce cristallizzate
cadute sulla foto di Sonia,

lei stessa le raccolse
dopo aver coperto il sole
mentre mi allargava la cassa toracica.

Vieni a visitare il mio dolore,
ma devi pagare il biglietto.
Costa quanto una carezza data male.

Anzi, fai una cosa,
prenditene cura tu.
Io vado a morire più in là
come i cani.

Tu sei fatta di ragazza

Tu sei tutta ragazza,
tu sei fatta di ragazza.
Hai la pelle di ragazza,
il sorriso di ragazza,
le mani di ragazza,
la schiena di ragazza,
la curva della nuca di ragazza,
i capelli di ragazza,
i pensieri di ragazza,
la voce,
il tuo occupare lo spazio fisico nell’aria,
il tuo sbattere di ciglia,
i baci,
le carezze
e la rabbia di ragazza,
le orme che lasci sulla sabbia
sono di ragazza,
hai le caviglie di ragazza,
hai i ricordi di ragazza,
le scarpe di ragazza,
i nei di ragazza,
il profumo
e il seno di ragazza,
il sonno di ragazza,
i fianchi lievi di ragazza,
hai persino il sapore di ragazza,
ma il tuo amore
quello,
non è di ragazza,
non lo è più
e per questo
se puoi,
perdonami.

Piede

Che la sua vita sarebbe stata tutta un lottare lo capì fin dal primo contatto con la luce, nello specifico il momento in cui fu afferrato e tenuto in aria, così, penzoloni, per svolgere la procedura solita che comporta l’essere partoriti.
Immediatamente venne il momento di crescere. Ogni cosa, dopo pochi giorni, gli andava stretta e scomoda. A malapena riusciva a tenersi sù.
Solo dopo un paio d’anni conobbe la comodità, quando, una volta imparato a camminare si disse che, per tutto il resto della vita, non sarebbe stato male continuare a farlo. Insomma, come si dice, ci prese gusto.
Sviluppando il concetto di simpatia e antipatia, cominciò a farsi piacere e non piacere tutto ciò che incontrava, sfiorava, vedeva e calpestava. Sì, proprio così: cal-pe-sta-va.
Stiamo parlando di un piede.
Anzi, di Piede. Di chi sennò?!

Piede era un piede destro, tranquillo e sottomesso. Del resto, non poteva farci granché. La vita di un piede esclude quasi del tutto il concetto di riconoscenza. Specie quando sei il piede destro di uno che non è mancino.
La lotta di Piede (perché stiamo parlando di una vera e propria sopravvivenza), consiste nella sua quotidianità.
La giornata inizia col suo fare i conti con la coperta che va via, poi il trauma del toccare terra e sperare che, per quel giorno, possa essere lui “il piede giusto”, successivamente la doccia che gli scrosta di dosso tutto l’intorpidimento conquistato durante la notte, che poi è l’unico momento di vero riposo per lui (tranne quando il gemello gli si butta addosso e ci rimane all-night-long, eccome se ci rimane), solo dopo viene il dramma delle calze (a pois, a rombi fucsia, a strisce oblique multicolor o con gli smiles) e i mocassini (arancioni scamosciati, blu col pendente a forma di baffi, telati finti-strappati o con la cordicella marinara tutta attorno), che il padrone hipster decide quotidianamente. Piede, in questo periodo della sua vita, se ne va all’università. Lì, incrocia piedi di quasi tutti i tipi e lui, che ha una certa sensibilità alla pulizia, non sopporta sono fondamentalmente di 3 categorie: i piedi freakettoni con i sandali anche a Gennaio, i piedi con la vena grossa, costretti a stare in tensione a causa del tacco 12 che ha imposto loro la padroncina di turno e infine quei poveretti che urlano pietà dall’interno degli anfibi che li torturano. Tornato a casa per pranzo, ovviamente a piedi e dopo aver sfiorato per tutto il tragitto i prodotti gastrici di cani e piccioni, non gli viene concesso neppure per qualche minuto di farsi coccolare un po’ dalle pantofole sformate e così poco coerenti col personaggio che si è costruito il suo superiore che subito dopo pranzo.. si va fuori! A casa dell’amico del padrone, Piede, può di solito concedersi un pisolino, ma solo fino a che il Lui non si lamenta del formicolìo muovendo tutta la gamba, spesso anche schiaffeggiandola. Lì sono sempre in quattro: Piede, il suo gemello e i due appartenenti all’amico de il Lui. Vestíti bene, per carità, con quelle Converse gialle semplici e non sporcate apposta per farle più vissute ma, per i suoi gusti, si muovono troppo. Un paio d’ore lì, a fare chissà cosa (c’è sempre una nebbia strana in quelle stanze), e poi di nuovo a casa. Finalmente pantofole! Il sollievo di Piede, a quel punto, comanda al cervello il rilascio di dopamina. A volontà. Il Lui s’addormenta e poi viene la sveglia del suo cellulare a ricordare a Piede e al suo socio di rimettersi in attività, sopportando questa volta chissà quale mise per chissà quante ore e vivendo chissà quali situazioni improbabili e scomode. Quindi, SI ESCE! A tarda sera, una volta tornati a casa, Piede, sviene così come il suo padrone e tutto ricomincia (esclusi festivi).
Insomma: una vitaccia!

Piede ne potrebbe raccontare di avventure. Come quella volta in cui, d’Estate, in spiaggia, si trovò davanti a due piedi di ragazza. Piccoli, sporchi di sabbia e bagnati. Ci rimasero per un po’, dopo di che si puntarono, sprofondarono per qualche centimetro e improvvisamente si alzarono, come se stessero prendendo il volo. Ma non erano in volo, no, semplicemente il Lui aveva afferrato quella ragazza dalla sua piccola vita perché, ai piani superiori, stava svolgendosi un primo bacio.
Un’altra volta ancora, anni prima, il Lui, nella palestra della scuola elementare, finì per tramortire Piede. Prese a calci una palla da basket e.. AIO! Seguirono tre/quattro giorni di cure, ma prima che il dolore fosse passato del tutto, si tornò alla vita di sempre; fatta di mignolini sbattuti agli angoli dei mobili, storte, calpestamenti vicendevoli e d’estate, gli scogli appuntiti su cui il Lui si arrampicava per tuffarsi assieme agli altri padroni di altri piedi.

Nella vita di Piede, ad un certo punto, successe un incontro. Successe perché non se l’aspettava, almeno con quelle modalità.
Era in un locale electro-chic perché il Lui, in quel postaccio, avrebbe incontrato una Lei appartenente a una delle 3 categorie che lui proprio non sopportava, ovvero il piede con la vena grossa.
Piede, stanco e debilitato, viene poggiato al suo gemello sinistro, così, accavallato. All’improvviso la tensione e la postura dritta. Al che Piede pensa “eccola, la vena grossa sarà nei paraggi”. Il Lui si sposta di quarantacinque gradi e.. una carrozzella. No no no no, non quelle per metterci dentro i bimbi e i rispettivi piedi, proprio una carrozzella per adulti.
Piede si ritrova davanti un altro piede, ma immobile, sul reggi-gambe della sedia a rotelle.
Gli pare, però, da una seconda impressione, di aver già visto quelle scar.. ..le Converse gialle!
Rimangono ferme, pensa.
Si muovevano troppo, pensava.
E adesso?
Ferme.

Ipnotizzato dalla situazione che s’era palesata, ha giusto intravisto, senza che si girasse o che spostasse la sua posizione, il tacco 12 avvicinarsi e allontanarsi in un momento.
Piede e le Converse gialle rimasero di fronte l’uno alle altre per una mezzora buona. Poi il Lui, velocemente, prese la strada di casa. E ciò che bagnava Piede, non era pioggia.

Piede quella sera pensò a ciò che aveva sempre considerato una sfortuna. Essere giù, in tutti i sensi. Dover subire gli ordini dalla testa, sempre sottomesso, mentre le mani possono toccare il cielo e avere la possibilità di amare. Le spalle possono dire la loro, sollevandosi e riabbassandosi. E il collo, torcendosi, ha la possibilità di sentenziare Sì e No, proprio come la bilancia della giustizia. Ma un piede? Ma.. Piede?

Piede si rese conto, a differenza di mani, piedi, spalle e testa, nonostante tutto, che possedeva la libertà di andare lontano, anzi, lontanissimo.
E lontanissimo, con lui, poteva portarci le scelte di tutta una vita.

Con i palmi chiusi a conca

Mi ricordo che da bimbo
non riuscivo a contenere
l’acqua nelle mani;
 
guardavo i grandi che bevevano
tutti appresso alla fontana
con i palmi chiusi a conca.
 
L’acqua non cadeva
tra le dita non si perdeva,
piuttosto dissetava.
 
E proprio non capivo
perché non ci riuscivo
e poi mi raccontavo
 
«magari ho dita piccole,
che l’acqua se ne fugge»
e non mi rassegnavo.
 
Ogni volta riprovavo,
mettevo le mie mani
con i palmi chiusi a conca.
 
La fontana era una madre
che quietava ogni sete
e mai si lamentava.
 
L’acqua che scorreva
si prendeva pure il tempo
che, ahimè, intanto gocciolava.
 
Scordai quella faccenda,
che non ebbi a ricordarmi
fino a molti anni dopo.
 
Oggi invece è lutto grande,
la fontana è già smontata
e nessuno è al capezzale.
 
«Le mie mani sono queste»,
le ho girate un po’ nell’aria
e ho provato a bere quella.
 
Sono adulte le mie dita
che ora sanno contenere
senza perdere una goccia.
 
Sarebbe bello se ci fosse
in ogni scuola e in ogni classe
una fontana come quella,
 
sarebbe bello se ci fosse
e che s’insegnasse a tutti come bere
con i palmi chiusi a conca.

Il nostro fiato stropicciato

Voglio essere la casa dei tuoi sbadigli,
avere cura della tua stanchezza.
Non c’è niente di più reale
della tua stanchezza.
Voglio reincontrare le tue gambe
sul tuo divano
alla Domenica sera.

Voglio essere la casa dei tuoi sbadigli;
portarti al sicuro nel tuo letto Ikea.
Non c’è niente di più ricordato,
dai miei ricordi,
del tuo letto Ikea.
Voglio conoscere il tuo smalto
che si consuma
sulla lava incandescente della noia.

Voglio essere la casa dei tuoi sbadigli
perché una volta ti ho guardata dormire
sul fogliame dei nostri vestiti
ancora caldi,
con i nostri odori ormai tutti consumati,
il nostro fiato stropicciato
e l’aria che brillava fuori dalle persiane.
Quella volta ho protetto il tuo riposo,
e baciato il tuo ultimo sbadiglio
prima che ti addormentassi.
Era Domenica sera
e da allora,
la sera,
sei tu.