Quei due.

[Incipit di Nicola Lagioia]
La lama di luce, obbedendo al proprio irraggiungibile mandante, percorse la parete dov’era sistemata la branda. Riaccese un mazzo di fiori secchi. Lambì il cartone da imballaggio nel quale era infilato senza criterio un intero guardaroba. Quindi fu sul ragazzo. Giovanni Palmieri aprì felice l’occhio destro.
Solo allora si rese conto che aveva dormito per tutta la notte con un antico lampadario in ferro battuto nero che penzolava pericolosamente sopra di lui, tenuto al soffitto da una corda dall’aspetto stanco. In quel primo bagliore del mattino gli parve una gargolla appollaiata. Dopo aprì anche l’occhio sinistro e decidendo di sfidare le probabilità, restando ancora un poco sotto la minaccia del mostro, gustò tutta quanta la piacevole serenità di sentirsi in un posto in cui da piccolo era stato amato. La sera prima non era neppure riuscito a fare il giro degli ambienti, provava addirittura una specie di gratitudine nei confronti della stanchezza del viaggio per avergli dato la certezza che avrebbe dormito. Solo la cucina gli parve un attimo diversa, non riuscì a capire in cosa. Il resto era identico, tutte le camere del secondo e del primo piano, le ampie vetrate coperte dalle altrettanto grandi tende damascate appesantite dall’oblìo, i quattro bagni e persino il marmo scheggiato da Sandro quando da solo cercò di spostare il pianoforte a mezza coda che i nonni gli comprarono in vista del conservatorio: cedette una delle tre rotelline e quello – SbangRrrh! Giovanni sapeva bene che l’avevano sistemato in casa loro solamente per vederlo più spesso, per tenerselo più vicino, per proteggerlo. Alla vista di quel particolare minimo cedette, pianse nel modo in cui piangeva da bambino, quando era certo che nessuno lo stesse vedendo, che poi è come ancora adesso piange quando è da solo: con la bocca larga, guaendo. Non ebbe neppure la premura di asciugarsi il volto, si diresse verso il cartone, lo capovolse rovesciando quello che c’era sul pavimento e uno a uno sistemò i vestiti nell’armadio di quella che fu la sua cameretta, al secondo piano. Portò lì anche la branda. Scese nuovamente al pianterreno, si avvicinò ai finestroni e con movimenti decisi e precisi scostò le tende; con le mani si fece spazio nella nube di pulviscolo, poi restò con le braccia penzoloni, con gli occhi chiusi, col mento alto, scalzo coi piedi uniti, con le spalle dritte, a respirare a tutti polmoni quello che restava della Famiglia Palmieri, a raschiare con cura i sensi per smuovere la posa del tempo e di tutto quello che perdendo aveva santificato. Fuori si srotolava il viale ormai vinto dalla vegetazione. Il grande cancello scuro si spalancò. Un taxi attendeva in strada. Un uomo si avvicinava. Riconobbe Sandro.
Mia zia zitella aveva il mondo in mano. Lo aveva al mattino tra le otto e trenta e le dodici e trenta, poi di nuovo dalle quattordici del pomeriggio alle diciotto della sera. Lavorava in una fabbrica artigianale di mappamondi su al nord. Scendeva solo per i matrimoni e i funerali di famiglia. Dopo l’invasione cinese e il conseguente fallimento della fabbrica, se ne tornò giù. Qualche giorno, attorno a una pasqua di molti anni fa, lo passammo da lei e così capitò che mia madre le chiedesse se potessi guardare il processo di produzione e assemblaggio dei mappamondi – «che secondo me s’affascina il ragazzo» – così disse. Mi feci tutto il turno della mattina vicino, anzi no, appiccicato alla zia. Il lavoro veniva svolto così: attraverso degli stampi si producevano due semisfere di vetroresina piuttosto trasparente, queste venivano incollate a mano con l’aiuto di una base concava così da avere una bella precisione, poi veniva spennellata della colla e uno strato di striscioline di carta da giornale non stampata, dopo, tutta la sfera veniva immersa in un liquido bianco che somigliava alla calce ma che calce non era e un uomo, solo lui, con le manone che si ritrovava, risolveva le bolle d’aria; dopo aver messo ad asciugare le sfere per un giorno intero, alcune dipendenti, le più capaci e precise, incollavano le strisce con gli oceani, i continenti, le isole e le penisole, una a una a formare il mappamondo; infine con un pennellino venivano ritoccate le fughe tra una striscia e l’altra e spruzzata tutt’attorno la vernice trasparente che rendeva lucida l’intera superficie. Mia zia era una delle incollatrici del mondo così come lo conosciamo. Mentre incollava, quella volta mi fece – «la tipografia un mese fa ci ha dato le strisce sbagliate, la Germania ce l’aveva data col muro, noi non c’abbiamo fatto caso e quei mappamondi lì sono finiti sul mercato; quando se n’è accorto il padrone» – chiamava così il capo suo – «ci voleva licenziare! Ma la colpa non era la nostra, era del tipografo. E io non sapevo nemmanco che il muro stava sopra a tutta la Germania, lo chiamano muro di Berlino e pensavo stava solo a Berlino.» – disse pari pari così. Mi zia è stata una vita silenziosa, credeva di stare bene così, stando sempre attenta a mai dare troppo per evitare di ricevere in cambio troppo poco. Persino i vestiti che si metteva erano senza contrasto, mi pareva come se buttasse borotalco su ogni fantasia di ogni vestito. Tutta fatta di nebbia, non parlava mai di cose importanti, ecco perché m’è rimasto il fatto del muro di Berlino; nei suoi discorsi non c’era mai fuoco, né al nemico né all’alleato. Quando mamma le diceva o le suggeriva un’opinione lei sospirava senza fare troppo rumore e con le mani che si strofinavano sulla gonna diceva «mhà, può darsi». Quando zia morì, al funerale si presentò solo mamma con il suo figlio adolescente, io. E anche il portiere del condominio suo venne. Il prete, dicendo della zia, parlò qualcosa circa la possibilità di riscattare la morte di Cristo Nostro Signore e del privilegio della resurrezione. Della grazia, parlò anche di quella. Lo fece guardando nel sole, verso la città che rombava, verso la vita, quella stessa a cui la zia applicava il silenziatore.
di Vittorio Nacci