Fino a più tardi

Eppure eppure eppure
avrei potuto fare di più per te
per esempio sposarti
o riuscire a capire di cosa parlavi
quando non smettevi
di guardarmi sorridendomi.

Ricorre dentro

Di nuovo s’è affacciata dalla cucina
la ragazza stretta con la treccia rosso vinaccio
il padre anziano controlla la cottura dell’agnello
io unico cliente al tavolino fuori, guardo dentro
dentro il locale e dentro di lei
la timidezza le provoca un riso acuto
le pareti ingiallite del piccolo estiatorio sono vuote
solo sta appeso un quadro
con una foto sbiadita da anni di sole
che entra dritto a mezzogiorno
mostra il porto di Patrasso negli anni ‘30
imbarcazioni a vela sul molo in lontananza
e in primo piano tre uomini col cappello
che guardano verso l’obiettivo
sembra siano stati sorpresi
hanno la posizione di quelli che quando sono in gruppo
e si chiacchiera di qualcosa di serio
vengono interrotti bruscamente.
Il piano cottura è a vista
tutto là dentro è senza cura
il mobile della cucina in acciaio, invece, splende.
Dal televisore arriva qualche immagine interrotta
un servizio sui siriani in fuga da Assad
il profumo dell’agnello arriva fino a qui
nemmeno il tempo di pensarci
la ragazza stretta con la treccia rosso vinaccio
s’avvicina e porgendomi il piatto mi dice καλή όρεξη
io rispondo efkaristo-poli
taglio la carne morbida morbida e lei resta alla porta
braccia conserte e denti affacciati
io le chiedo in inglese se di lì passano molti italiani
sì, ragazzi in gita scolastica da Brindisi mi fa
la settimana scorsa mi fa
mentre lo dice, con una mano
s’accarezza su e giù l’avanbraccio
dall’interno tuona la voce baritonale del padre anziano
non capisco, probabilmente le dice di rientrare subito
così corre da lui, la rimprovera per qualcosa
lei toglie il sorriso.
Mentre vado via torna sulla porta
si poggia al muro, è seria
ciao le faccio in italiano
ciaò fa lei
ritornano i suoi denti
ritorna la voce di suo padre
e ricorre dentro.
Ancora oggi
ancora domani
ancora
mi ricorre dentro.

Cronaca di un fuocherello

Comprammo due scatole di diavolina;
mentre lei con l’indice tirava la prima dallo scaffale del supermercato
si voltò nella mia direzione
io guardavo il reparto della frutta secca
e mi fece –
forse è meglio prenderne due
sia mai non riusciamo ad accenderlo –
così le dissi che ok
potevamo spendere qualche centesimo in più
tanto non avremmo mangiato tutta la notte
qualche secono dopo aggiunsi
che le stavamo comprando per sicurezza
perché io poche volte ho acceso un fuoco

 

 

la sera si accese assieme alle serenate dei grilli
vibrava il caldo torrido che portava dalla città l’odore del mare stagnante
la campagna muggiva ancora dei suoni dei pochi contadini rimasti nei campi
ci sistemammo sul verandino
la mia ragazza apparecchiò male sul tavolo di plastica
quello cotto dai pranzi sotto il sole di Luglio
di quando mio padre c’era ancora
e si brindava col vino di mio nonno
che quindi c’era pure lui
ma mio padre è schiattato prima di suo padre
e per sommi capi questo è un pelo più drammatico

 

 

dopo fumò una sigaretta come fosse accavallare le gambe
un vezzo necessario per una donna seduta
le fettine sarebbero state pronte in due paia di minuti
giusto il tempo per guardare il tragitto di una zanzara
che le si posò sul braccio
gonfiò la sua sacca di sangue
si staccò dal braccio
e volacchiò pesante
fino a posarsi giusto sopra il plafone con la luce gialla dell’ingresso
mi alzai e portai con me un piatto e una forchetta
sollevai la graticola
portai la carne a tavola
lei sorrise senza guardarmi

 

 

sul piano della cucina
dentro
oltre le tendine di plastica
notai la busta bianca con le due scatole di diavolina
sigillate
a quel punto
dall’altro mondo
sentii mio padre ridere
quella fu la prima volta che ridemmo assieme.

Una giovane donna

Una giovane donna
con un fazzoletto nero sul capo
entra in una chiesetta di campagna
intonacata di fresco
bianca e luminosa
come le piccole croci di legno d’ulivo
che se ne stanno vicine vicine
perché i morti
non hanno fastidio per gli altri morti
 
la giovane donna
con i capelli di castagno
che le scappano via dal velo
s’inginocchia al Cristo
sibila la sua devozione
poi striscia fino ai piedi trafitti
e glieli bacia
adorando il dio e l’uomo
il figlio e il padre
lo spirito e la carne
 
la giovane donna
con gli occhi oliati di pianto
ora
si fa bagnare dalla luce del giorno
l’incenso e l’odore delle candele
scivolano via dalla veste nera
e se ne tornano dal Cristo
il lentisco colora le tombe
 
adesso la giovane donna
respirando un poco di sole
lancia lo sguardo oltre le tombe
oltre il gracile steccato bianco
oltre i torreggianti cipressi
e tira le labbra
fino a renderle sorriso
 
il giovane uomo
la sta aspettando
in mezzo al campo della vita.

Voglio essere un’opera d’arte

«Voglio essere un’opera d’arte»
«Lo sei o perlomeno io credo tu sia vicinissima ad esserlo»
I piccoli bagliori delle luci gialle e verdi sulla pista dell’aeroporto militare delineavano la sua mascella e lo facevano con una luce che ricordava quella del fuoco.
«Non lo sono e non lo sono perché sono debole»
«Ma non sei debole!» – guarda ad esempio come hai ridotto me, guardami su’, guarda cosa mi hai fatto – avrei invece voluto dirle.
«Io voglio fare della mia mente e del mio corpo qualcosa di bellissimo»
«Ma sei già bellissima così, cosa dovresti cambiare scusa?»
«Non lo so, voglio tornare a correre, perdere un po’ di chili»
«Ma se sei tutta ossa, fortuna ti salva il tuo bel culo»
«Smettila!»
«Cercavo solo un sorriso sulle tue labbra per farti capire quello che penso, ovvero che per me tu sei già una bellissima opera d’arte, per tutto quello che ti concerne»
«Per te!»
«Eh, per me, sì»
«Io voglio esserlo per me, non per te»
«Non arriverai mai ad essere abbastanza per te, è nella natura di tutti gli uomini non bastarsi. Anzi, quando arrivano a bastarsi vuol dire che sono già morti ma non lo sanno»
«Ci sono situazioni che non puoi capire, né tu né chiunque altro, situazioni dentro di me, mie barriere, miei fossati con i coccodrilli e all’improvviso grandi montagne. Quindi spesso mi arrendo all’idea che è così e subito dopo impazzisco per aver solamente pensato che potessi andarmi bene come sono»
«Sai che c’è?»
«Cosa?»
«C’è che un’opera d’arte è sempre la gemma di un acume, di un’estrema felicità o di un affilatissimo dolore e il suo frutto è la tua liberazione. Ecco, devi liberarti del tuo dolore per far sbocciare l’arte che vuoi essere.»
«Il mio dolore è enorme e non puoi conoscerlo»
«No, io non posso conoscere il tuo dolore, hai ragione, ma ne sono innamorato. Sono innamorato del tuo dolore»
 
La piccola goccia di sudore che scendeva incrociò la riga di una lacrima e ne percorse la scia, giunsero assieme sul bordo dell’abisso, indugiarono per un istante e assieme saltarono giù.

Lì ci sono i passi

Voglio baciarti gli angoli della bocca.
Lì c’è il tuo sorriso.

Voglio accarezzarti le orecchie.
Lì ci sono le mie parole.

Voglio toccarti le gambe.
Lì ci sono i passi che ti porteranno a me.

La mia notte

Non ho niente contro di te,
solo non voglio che ti metta
a rovistare nel mio sonno.
 
La mia notte è permalosa,
non regge alle tue provocazioni
cede e si dispera
poi aspetta
fino al mattino
per chiederti se,
per caso,
vuoi un caffè.
 
La mia notte è orgogliosa,
non partecipa alla tua commiserazione,
si fa forza
poi ti sfida
con lo sguardo
e se non abbassi
il tuo prima del suo
ti regala una carezza.
 
La mia notte è una ragazza con gli occhiali,
non ti riconosce se non le suoni la tua voce
quando si fa tardi
si trasforma
in una donna segugio,
sarebbe capace
di riconoscerti al buio
dall’odore dei tuoi capelli.
 
La mia notte è il Gesù che sanguina
sacrificio dell’amore supremo,
riscatta il suo sorriso
con il tuo,
ora è pronto a morire per te
proprio come
lo sono
io.

Ben oltre le tue risate

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Non capivo Venezia,

erano giorni inquieti,

tu dormivi in un letto che,

di me,

aveva solo l’odore.

Io non c’ero,

per davvero.

Io non c’ero

perché cominciai a roteare nella stanza

di quell’hotel di Mestre.

Guardavo dall’alto la tua esse,

i tornanti pericolosi

dei tuoi fianchi,

che già sapevo

di doverci morire.

Allora cominciai a roteare nella stanza

di quell’hotel di Mestre.

La mattina tu guardasti quell’enorme palloncino

a forma di cane,

come quelli che fanno i clown per le strade.

E io ti spiegai che era un’opera di Koons,

che significava ben oltre le tue risate.

Allora cominciai a roteare nella stanza

di quell’hotel di Mestre

e la finestra era aperta

e sono andato a cavalcare l’opera di Koons.

Quando sono tornato tu abbracciavi il mio odore,

ché solo quello mi era rimasto

da poterti concedere.