Mai mai mai mai più

Acqua minerale effervescente e sigarette nazionali:
di questo odoravano i campeggi italiani
nell’estate del ’94.
Poi una volta il circo rimase da settembre a novembre
e una ragazzina sinti della famiglia circense venne in classe
– la presentò la maestra –
io uscivo da quell’estate lì con la carnagione più scura della sua
quel primo giorno Michelino non c’era e lei restò al banco mio
parlava bene l’italiano e non lo davo per scontato
visto che la maestra sottolineò “è una sinti”.
Ricordo che mi chiesi se la nazione dalla quale provenisse
si chiamasse Sintònia.
Il suo cuore era dolciastro – giocava a raccogliere i fiori del cortile
e alcuni me li faceva assaggiare, danno di limonata, diceva, ed era vero –
il suo carattere invece era forte
non aveva paura di sporcarsi le mani a cacciare lucertole
e difatti nessuna delle altre della classe aveva piacere a giocare con lei.
Un giorno successe pure che mi portarono al circo a veder lo spettacolo
e scrutando tra le mascherine
non riuscii nemmanco a intravederla.
I tre mesi furono soffiati via in un attimo con l’arrivo dell’autunno
e alla fine
– e forse si può intuire da come ho srotolato romanticamente questa storia –
ci fu il bacio
e davvero, non per creare un qualche tipo di climax
successe proprio all’ultimo minuto prima di non vederci più
proprio più
mai mai mai mai più.
E io non me la ricordavo ‘sta storia
[proprio zero]
perché sono sempre stato bravo
a dimenticarmi quel che mi provoca delle sommosse coscienziali;
l’ho riesumata dall’ippocampo dopo aver visto un servizio
di approfondimento in tv.
In un campo sinti intervistavano il capofamiglia
parlava di come tutti loro anni prima fossero in un circo
per vera tradizione circense
e che poi ha dovuto cominciare a fare un lavoro nuovo
un lavoro di tutti i giorni, dice
poi gli spunta da dietro una giovane donna
con un bimbo piagnucoloso addosso
il capofamiglia la acclude con un braccio e la tira avanti
bene bene a favor di telecamera
e fa
questa mia figlia, per fare continuare studiare come italiani
per questo abbiamo lasciato circo.
Ovviamente era lei
e quello suo figlio
e quello suo padre
e io non ho una morale per ‘sta storia
ma è una poesia
anche solo per il fatto
di poterla riammettere
tra le cose
che non dimenticherò
mai mai mai mai più.

Quei due.

Dieci preti neri neri camminano uno dietro l’altro sul marciapiede opposto sventolando gli abiti talari. La loro traiettoria è attentata da frutti di cani, motocicli incatenati, cartelli stradali e pubblicitari, piccole pozzanghere formate dal cedere di alcune mattonelle. Loro sembrano aleggiare su tutto questo, lievitano con eleganza spirituale. Per assistere a questo fotogramma che nemmeno Sorrentino, mi sono bruciato l’interno dell’indice e del medio: la sigaretta s’è fumata da sola. La città enorme, la trappola comoda, si srotola tutta attorno al centro che coincide con il punto esatto in cui sono seduto. Mi spetta un altro pizzico di ritardo di Dora, un altro poco di poco tempo, poi lascerò ‘sta poltronissima vip sulla scena di un indaffarato mattino metropolitano.
Dora arriva. Strappo il suo bacio sentito e le restituisco un tanto di saliva. Penso in un lampo che – come si fa ad avvicinarsi in maniera così appassionata, a un qualcun altro qualsiasi, così velocissimamente? Intanto già parla. Ininterrottamente parla. Sì – faccio io – sì sì. Arriviamo all’all you can eat del cibo italiano. È nuovo – dice voltandosi mentre spinge la porta – tutte ricette italianissime, porzioni piccole e quindi mangi quello che vuoi fino a che non scoppi. Dora è la stessa che mi strappa le gonadi con la storia di smazzare, di come stavo quando l’ho conosciuta tre mesi fa – un figurino. Alle volte preferisce così come sto ora, però. Crede che io non possa uscire dal suo ranch perché, come sto ora, mi fa meno desiderabile agli occhi delle altre, forse. Sbaglia.
No, non abbiamo prenotato – rispondiamo a quello che accoglie i clienti, forse il proprietario, all’ingresso. Va bene uguale – dice – oggi siete fortunati. Come no, come no – gli rispondo nella testa. Ci accomodiamo al tavolo. Ci sono parecchi camerieri, tutti vestiti uguali col grembiule-stereotipo che si ha all’estero del ristoratore italiano, sorridenti a sforzo.
E poi stanno due a un tavolo più in là. Una ragazza pienotta in maniera educata che pare uscita poco fa dall’insegnare catechismo ai figli degli amici dei suoi, tutti professionisti con un nome. Un freakettone tanto magro coi capelli a paglione, curati però, un cardigan vagamente grunge. Chissà se è dal suo sguardo spuntato, oppure dal modo basso in cui muove le mani bianche e sottili, in qualsiasi caso traspare tutto il benessere economico e la scomodità sociale della sua famiglia. Dora mi legge il menù. Tutto me lo legge. Ordiniamo. Anzi, ordina. Dora parla, persino guardandomi, ma non s’accorge di cosa m’interessa davvero. Non sa. Vorrei mi raccontasse cosa è successo al fratello di suo padre, il motivo per cui lo chiama fratello-di-suo-padre e non zio. Dora parla e vabbhè. M’interesso a quei due. Quei due si interessano a loro due, com’è giusto che sia, come dovrebbe essere. Ma c’è una storia lì, la vedo svaporare dai loro corpi. Ci sto pensando. Ora all’improvviso m’è chiaro. M’è chiaro perché lui le prende la mano, la tira verso sé, quella lo guarda incantata, lui gliela bacia. Mentre lo fa si guarda attorno.

Mappamondi

Mia zia zitella aveva il mondo in mano. Lo aveva al mattino tra le otto e trenta e le dodici e trenta, poi di nuovo dalle quattordici del pomeriggio alle diciotto della sera. Lavorava in una fabbrica artigianale di mappamondi su al nord. Scendeva solo per i matrimoni e i funerali di famiglia. Dopo l’invasione cinese e il conseguente fallimento della fabbrica, se ne tornò giù. Qualche giorno, attorno a una pasqua di molti anni fa, lo passammo da lei e così capitò che mia madre le chiedesse se potessi guardare il processo di produzione e assemblaggio dei mappamondi – «che secondo me s’affascina il ragazzo» – così disse. Mi feci tutto il turno della mattina vicino, anzi no, appiccicato alla zia. Il lavoro veniva svolto così: attraverso degli stampi si producevano due semisfere di vetroresina piuttosto trasparente, queste venivano incollate a mano con l’aiuto di una base concava così da avere una bella precisione, poi veniva spennellata della colla e uno strato di striscioline di carta da giornale non stampata, dopo, tutta la sfera veniva immersa in un liquido bianco che somigliava alla calce ma che calce non era e un uomo, solo lui, con le manone che si ritrovava, risolveva le bolle d’aria; dopo aver messo ad asciugare le sfere per un giorno intero, alcune dipendenti, le più capaci e precise, incollavano le strisce con gli oceani, i continenti, le isole e le penisole, una a una a formare il mappamondo; infine con un pennellino venivano ritoccate le fughe tra una striscia e l’altra e spruzzata tutt’attorno la vernice trasparente che rendeva lucida l’intera superficie. Mia zia era una delle incollatrici del mondo così come lo conosciamo. Mentre incollava, quella volta mi fece – «la tipografia un mese fa ci ha dato le strisce sbagliate, la Germania ce l’aveva data col muro, noi non c’abbiamo fatto caso e quei mappamondi lì sono finiti sul mercato; quando se n’è accorto il padrone» – chiamava così il capo suo – «ci voleva licenziare! Ma la colpa non era la nostra, era del tipografo. E io non sapevo nemmanco che il muro stava sopra a tutta la Germania, lo chiamano muro di Berlino e pensavo stava solo a Berlino.» – disse pari pari così. Mi zia è stata una vita silenziosa, credeva di stare bene così, stando sempre attenta a mai dare troppo per evitare di ricevere in cambio troppo poco. Persino i vestiti che si metteva erano senza contrasto, mi pareva come se buttasse borotalco su ogni fantasia di ogni vestito. Tutta fatta di nebbia, non parlava mai di cose importanti, ecco perché m’è rimasto il fatto del muro di Berlino; nei suoi discorsi non c’era mai fuoco, né al nemico né all’alleato. Quando mamma le diceva o le suggeriva un’opinione lei sospirava senza fare troppo rumore e con le mani che si strofinavano sulla gonna diceva «mhà, può darsi». Quando zia morì, al funerale si presentò solo mamma con il suo figlio adolescente, io. E anche il portiere del condominio suo venne. Il prete, dicendo della zia, parlò qualcosa circa la possibilità di riscattare la morte di Cristo Nostro Signore e del privilegio della resurrezione. Della grazia, parlò anche di quella. Lo fece guardando nel sole, verso la città che rombava, verso la vita, quella stessa a cui la zia applicava il silenziatore.

di Vittorio Nacci