L’abbastanza

– CON TE NO!
Grazia, mentre lo disse, lo guardò dalla testa ai piedi e ritorno, poi si diresse verso il suo banco, lo raggiunse, si voltò verso Alice e ghignò con lei come solo i bambini sanno ghignare.
Valentino ci rimase malissimo. Ancora alla Scuola elementare e già sentirsi rifiutare dai compagni di classe per così tante volte.
Già, perché non era la prima volta quella. E ci stava male. E quindi, sfogava sugli altri bambini. In maniera non certamente cauta. Li picchiava. Anche per niente.
Il motivo per cui venisse sempre respinto era da ricercare nel suo odore personale.
Valentino puzzava.
Molto.
Il 2° di 3 figli di genitori che definire poveri è far loro un complimento. Erano Leo, il più grande, Valentino e Angela, la più piccola.
Santuzzo, suo padre – gracidino, baffo nero leggermente ossigenato dal fumo delle sigarette, stempiato, guance infossate nel teschio, sguardo siculo e crocifisso d’oro al collo – in primavera apriva ricci di mare agli angoli delle strade e il resto dell’anno lavoricchiava qui e lì; Maria, sua madre – colpi di sole sul castano scuro, un’occhio verde che se ne andava per i fatti suoi, occhialoni con la montatura finto osso rosa sporco, bassa quanto magra e bianchiccia – casalinga molto distratta e soprattutto esaurita. Motivo per cui.
Valentino aveva la faccia trapuntata di lentiggini: tantissime sul naso, che si diradavano percorrendo il viso fino alle orecchie.
Valentino aveva i dentoni da castoro, i capelli corti, rosso scuro, ruggine marcia.
Valentino non aveva la toppa.
Ognuno di noi aveva, sul grembiule, all’altezza del cuore, una toppa. La mia raffigurava un aquilone blu con i fiocchetti colorati sulla coda. Chi aveva Topolino, chi dei palloncini, chi una barchetta, chi Biancaneve, via dicendo. Valentino no.
Valentino malandrino.
A me non faceva nulla, non m’ha mai toccato.
Perché?
Perché riuscivo a resistergli! Più che a lui, al suo malodore.
Spesso mi ritrovavo suo compagno di banco, l’accoppiamento lo facevano le maestre. Lo intuirono così come intuirono che non mi sarei lamentato.
Spesso Valentino aveva atteggiamenti che lo spingevano sempre più lontano dal benvolere dei compagni di classe.
Ad esempio si scaccolava.
Lo faceva senza vergogna.
La sua produzione la potevi trovare tutta sul sottobanco. O sui tubi che componevano la sedia sul quale si sedeva e che nessuno voleva utilizzare. Perché era l’unico ad avere una sedia fissa, tutta sua.
Io la voce di Valentino me la ricordo rauca già da bambino. Sembra sempre come se avesse gridato fino a raschiarsela, ma lui si svegliava la mattina che già ce l’aveva quella vociaccia.
Non parlava molto. Però vociaccia.
Non parlava molto. Però cazzotti.
Non parlava molto. Però gli volevo bene.
Non lo so perché gli volevo bene. Tu lo sai perché vuoi bene a uno!? Non i motivi che ti hanno portato a volergli bene. Parlo proprio della sostanza di cui è fatto il bene. Quello che si porta dietro e quello che timbra il nostro bene nei confronti di quello o quell’altro, quella o quell’altra. Che lo certifica. Io non lo so.
Santuzzo spesso aspettava Valentino all’uscita di scuola. Ma non lo aspettava. Nel senso che l’ingresso della scuola confinava e confina tutt’ora con un circolo di pescatori a vozzo – di quelli che vanno a ‘inzillare’ i polpi. Santuzzo se ne stava là, col Peroncino in mano – i soldi per il Peroncino c’erano sempre – la nazionale al lato della bocca e sempre una bestemmia pronta a condire e a contribuire allo sproloquio dei compagni (Cum Panis, letteralmente: colui con cui si spezza insieme il pane (calco dal greco σύντροφος, “cresciuto con”).
Quando Valentino usciva, appunto, lo trovava lì. A casa si tornava solo dopo un altro Peroncino.
Non era chiaro come passasse il resto del tempo Santuzzo.
Personcine a modo, attorno a lui, non ne vedevo mai.
Personcine a modo, attorno a lui, non ne vedevamo mai.
Personcine a modo, attorno a lui, non ne vedeva mai, Valentino.
Verso la mia 4ª elementare, mia sorella – 7 anni più grande di me – cominciò a fare volontariato con un’associazione di ragazzi del suo liceo. Svolgevano il doposcuola per ragazzi facenti parte di famiglie al limite dell’indigenza che abitavano nel paese vecchio.
Lo faceva in casa di Titina, una signora anziana che metteva a disposizione il suo modesto spazio vitale. C’era anche il grande tavolo che costruì suo marito, venuto a mancare anni prima, per le scorpacciate domenicali nella loro ormai ancor più mancata famiglia.
Al doposcuola, una volta, ci andai pure io con lei.
Ricordo l’odore di naftalina mista aceto che occupò subito il mio olfatto, una volta scostate le tendine fatte di perline di plastica.
Attorno al tavolozzo c’erano una decina di bambini, ma anche una ragazzina dai capelli sfibrati – chissà perché ricordo questo particolare – e un grassoccio occhialuto con indosso una t-shirt con sopra scritto “DOORS” ed il faccione di Jim Morrison subito sotto.
C’era Leo.
Il fratello di Valentino.
Biondiccio scugnizzo che, a 37 anni meno del padre, già c’aveva le guance dentro al cranio. Una finestrella nera al posto di un incisivo superiore. Che mi sorrideva. Perché mi conosceva. Ogni tanto andavo a casa di Valentino a giocare o comunque lo trovavo che s’annoiava con Santuzzo, mentre Santuzzo bruciava le sue labbra con le nazionali e poi le innaffiava col Peroncino. Bruciava ed estingueva, in realtà, tutte le opportunità di un’esistenza.
Era simpaticissimo pure Leo.
Che molti adulti già chiamavano Nardino. Forse per abituarlo alla piccolezza del suo futuro.
Come Valentino, menava. Però menava quelli più grandi di noi. Era passato di grado sbarcando alle scuole medie.
Quel pomeriggio pure ci divertimmo, fecero qualche compito e poi mangiammo tutti la torta alla nutella che preparò Titina.
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Il giorno dopo.
– Oggi è chiusa la scuola – rispose mia madre quando le chiesi come mai non mi avesse svegliato quella mattina.
– Chiusa?
– Eh sì, ieri sera in Piazza Palmieri c’erano i delinquenti.
– E che centrano i delinquenti con la scuola? – non che fossi dispiaciuto del fatto di non essere andato a scuola, non ero e non sono il tipo che si dispiace per una epifania del genere, ma c’era un’aria strana nelle parole trattenute da mia madre.
Pensando a Piazza Palmieri mi venne in mente la fontana, e poi la Chiesa di S. Pietro e Paolo vicina alla fontana, e poi l’alimentari di Rita vicino a S. Pietro e Paolo, e poi la casa di Valentino vicina all’alimentari di Rita. Giocavano sempre in Piazza Palmieri. Sia Valentino che Leo che Angela.
– Perché è chiusa la scuola mamma?
– Hanno fatto la sparatoria.
Avevo già sentito parlare di questa parola: sparatoria. Neppure il tempo di pensarci e il suo significato mi si schiantò nel cervello.
Hanno fatto la sparatoria, disse mia madre. Proprio così: hanno fatto la sparatoria. Non UNA sparatoria. La sparatoria.
Come fosse prevedibile.
Ora il centro storico della mia Città è mangime per turisti.
Tutto aggiustato. Tutti i locali. Tutte le iniziative culturali. Tutto il passeggio. Sparatorie? Quali sparatorie? Ma quando mai!
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“La Città piange la scomparsa del piccolo Leo e si stringe attorno al dolore dei suoi familiari. I funerali saranno celebrati presso la Chiesa di S. Pietro e Paolo, domani, alle ore 16:30.”
Non rividi mai più Valentino.
Il giorno seguente i funerali, Valentino e quello che rimaneva della sua famiglia, furono spostati chissà dove. Protezione la chiamano. Fù dato loro un nuovo cognome e probabilmente un nuovo status sociale.
Ho bisogno di credere che la memoria di chi ha l’anima pura non possa cambiare, né cancellarsi.
Mi rimane questa foto. Mi tiene il braccio sulla spalla, Leo.
Che futuro è quello che viene concesso a noi e non a chi vogliamo bene. Da soli rischiamo di perderci, in mezzo a tutto questo schifo.
Eravamo tutti dodicenni o giù di lì. Giù di lì nel senso che potevamo avere meno di dodici anni, non di più. Tranne uno, Mauro, che di anni ne aveva tredici.
C’era l’abitudine di giocare nel cortile sul quale si affacciavano gli alveari che, per pigrizia e convenzione linguistica, vengono chiamati Case. Caseggiati. C’era una gerarchia fondamentale, i più grandi che le davano, i più piccoli che le prendevano e poi quelli come me, che nel mezzo né le davano, né le prendevano. Forse qualche volta le ho date anch’io, ma non le ho avute. Forse sì, ma probabilmente non riesco a ricordarmelo per l’abitudine ammaestrata che ho di rimuovere tutto ciò che di pessimo mi accade.
Si giocava a biglie provocando un buco nell’asfalto del parcheggio con dei pezzetti di ferro trovati qua e la’. Si giocava a lunga con le figurine dei calciatori Panini. Si giocava a calcio con le regole inventate, esistevano clausole come alta e giocassolo. Si giocava a litigare. Si giocava a parlare delle ragazzine. Si giocava a creare i falò per la notte di S. Giuseppe, quando si lavorava fianco a fianco con i più grandi, ragazzi di quattordici e anche quindici anni, che ai nostri occhi erano vecchi saggi, con chissà quali responsabilità planetarie. Si giocava a fare le crocette intrecciate con i cuori di palma, da vendere a Pasqua di porta in porta. Una volta arrivai a mettermi in tasca la bellezza di quattordicimilalire, un patrimonio. Ricordo che, il giorno dopo, con quei soldi andai di corsa a comprarmi un gioco per il Game Boy. Insomma, si giocava.
Poi da Mauro arrivò l’idea che fece tremare le gambe a tutti noi pivellini: una festa con le ragazze.
La chiesa del mio quartiere fittava delle stanze che aveva dalla parte del convento. Proprio alle spalle dell’abside. Non a scopo abitativo, ci facevano piccole feste, riunioni, corsi e il catechismo. L’inspiegabile catechismo. Non riuscivo proprio a capire come mai Gesù avesse detto delle cose in un libro e noi ne dovessimo studiare un’altro. Il catechismo della Chiesa Cattolica, appunto.
Mauro, con altri due ragazzini andò a parlare col sagrestano per sapere come si potesse fare per occupare quelle stanze per una sola sera e quanto ci venisse a costare. Suo cugino più grande aveva già festeggiato il suo compleanno lì e lui notò che c’era già lo stereo. Fondamentale. Il fine ultimo era ballare con le ragazze, visto che di farci dei discorsi sarebbe stato assurdo. A malapena le conoscevamo di vista, figuriamoci parlarci. Le conosceva Mauro, lui ci scambiava addirittura due battute quando capitava loro di passarci vicine. Era forte Mauro, un uomo. Mica come noi altri.
Tornando, ci disse che si poteva fare e avevamo una settimana per organizzarci. Che poi, organizzarsi, per quel poco che c’era da fare. L’organizzazione consisteva nel cercare la musica adatta, i giochi da fare e la roba da bere. Per il cibo, chiaro, avremmo mangiato ognuno a casa propria. Alla fine le mamme si occuparono di comprare qualche Fanta, Coca Cola e 7up. La 7up!
Doveva essere Primavera, perché le nostre magliette si inzuppavano con una facilità estrema. Non era Estate, perché altrimenti le magliette non le avremmo avute neppure.
In quella settimana quasi me ne dimenticai, della festa. Per giorni non scesi a giocare perché mi venne una cosa che il medico chiamò ringotracheite. Quasi mi piaceva ringotracheite, mi sembrava di essere uno dei Beatles. Che stronzata!
Arrivò il Sabato. Il pomeriggio, dopo i compiti che dal sottoscritto spesso e volentieri venivano rimandati mollemente alla Domenica sera, scesi giù. C’era un nervosismo che percepii come comico prima e allarmante poi. Tutti con le buste. Aspettavamo Mauro. Mauro arrivò. Senza neppure il suono di uno scappellotto ci mettemmo sulla strada che portava al luogo dove avremmo tenuto la festa. Delle ragazze che ci sarebbero state ne conoscevo solo un paio. Conoscevo, parolona. Diciamo che avevo nella mia testa la loro immagine perché anni prima frequentavamo lo stesso asilo.
Fummo lì. Uno stanzone bello grande. Pareti gialle e soffitto bianco. Due lampadine segnavano i punti luce, penzolavano attaccate direttamente ai fili della corrente. Ogni volta che uno entrava sbattendo la porta, si mettevano ad oscillare. Qualcuno cominciò a farlo apposta.
Fabio spazzò il pavimento con la scopa che trovammo lì stesso.
Leo con la paletta raccoglieva e buttava ciò che Fabio spazzava nel grande cestino che si trovava subito di fianco all’ingresso.
Io, con Piero e l’altro Fabio, sistemai i tavoli. Erano ripiegabili, di legno e ci guardavano dal fondo della stanza. Li portammo al centro. Li aprimmo. Li sistemammo per lungo, come a formare un’isola al centro della stanza. Srotolammo la tovaglia di carta, aveva un motivo con delle ciliegie. Posammo i piattini, li riempimmo con delle patatine e poi fu il turno delle bibite. Ebbene. C’era, tra il resto, una confezione di 3 Peroni da 33. Ci guardammo increduli, poi assieme ci voltammo verso Mauro. Ci guardava. Sorrideva. Capimmo.
Si fecero le 18, cominciava a tramontare. Io avevo addosso un paio di pantaloncini jeans strappati qui e lì, di quelli da battaglia. Li usavo quando c’era da far casini giù in cortile. Le gazzelle rosse che mi feci comprare un paio di mesi prima perché le aveva mio fratello. Già distrutte. E una t-shirt. La t-shirt era di un inserto mensile che usciva con un qualche quotidiano o settimanale. TUTTO MUSICA. Era bianca. Sopra c’era disegnato un grosso orologio con al posto delle lancette, chitarre. La scritta TUTTO MUSICA era composta come quella di Never mind the bolloks dei Sex Pistols, con delle lettere prese da giornali, ritagliate e messe una di seguito all’altra a formare le parole. Durante l’apertura dei tavoli, però, non riuscendo a sganciare il meccanismo che teneva chiuse le due parti piegate, mi tagliai. Giusto qualche goccia di sangue Una ferita da nulla che prontamente tamponai con la maglietta di TUTTO MUSICA. Lo feci perché eravamo tutti d’accordo che, ad una certa, avremmo lasciato tutto pronto e ci saremmo concessi una mezzoretta per andarci a lavare, prima che fossero arrivate le 19. Orario dell’appuntamento.
Macché, Mauro si andò a lavare mentre noi sistemavamo le ultime cose e non tornava. Qualcuno doveva pur rimanere lì a sorvegliare la situazione. Gli altri pure, una quindicina di minuti dopo che Mauro se ne fu andato, piano piano cominciarono a dissolversi come il fumo di una sigaretta con la bora. Rimasi lì spazientito. Fuori qualcuno aveva sistemato uno stereo. Uno di quelli seri. Aveva persino il lettore per i Compact Disc. Lo stereo fu sistemato all’esterno perché li avrebbe avuto luogo il clou della festa. Il gioco della spazzola. Con la musica. Con le ragazze. Vagamente avevo intuito di cosa si trattasse. Mentre pensavo a come si sarebbe potuto svolgere il tutto, in quale successione sarebbero avvenute le presentazioni, il ballo, il gioco e le bibite, ecco Mauro.
“oh! ma solo io ‘sto ancora così.. che cà.. ” – dissi.
“Embhè!?”
“EH! Tutti a lavarsi a cambiarsi e io così, con la maglia sporca di sangue, tutto sudato e sono quasi le sette.. ”
“Embhè!?”
“Che embhè!?”
“Stai beeeeneeee. Il sangue neppure si vede, sembra faccia parte della maglia. Sineee, stai bene cosìììì.. ”
“Così!?”
“Così, sì, stai bene. Capirai”
Non capii quel ‘capirai’, me lo buttai alle spalle come non fosse importante e decisi che sì, sarei rimasto così, tanto ..
Arrivarono gli altri. Forse non avevo mai visto tutti i ragazzi del quartiere così tirati. L’altro Fabio aveva addirittura il gel. Ai miei occhi avrebbero tutti potuto presentare la grande notte degli Oscar.
Cominciarono ad arrivare le ragazze. Alcune accompagnate dai genitori fin dentro, fino al cortile di fronte allo stanzone. Le 3 birre, furono nascoste. Neanche fossero droghe pesantissime.
Le presentazioni non furono fatte.
Mauro le conosceva tutte.
Tutte conoscevano Mauro.
Tutte guardavano Mauro.
Mauro guardava tutte.
Noi altri rimanemmo un po’ in là.
Piano, prima le ragazze, poi noi, ci avvicinammo al tavolo. Mangiammo quel poco di patatine che le ragazze ci avevano gentilissimamente lasciato. Cominciammo a bere ciò che c’era da Bere. Mauro parlava con Chiara, la ragazza più bella. Lo guardavamo con ammirazione. Sembrava essere un uomo navigatissimo. Sapeva come guardarla, perché lei delle volte arrossiva vistosamente. Chissà cosa si dicevano. Mauro tirò fuori la prima birra. La bevve in mezz’ora. Dopo la seconda andò ad alzare la musica. La musica. Con la emme minuscola. Io ero abituato ad ascoltare mio padre che la Domenica mattina ci svegliava tutti mettendo sul piatto del giradischi il Bolero di Ravèl. Mio fratello che si sparava a palla Nirvana, Sex Pistols, Pearl Jam e Soundgarden. Mia sorella fissata di Vasco e Carboni. Mia madre che tra Modugno, Mina e Battisti me le cantava tutte fin da bambino. Ero certo di poterla chiamare musica con la emme minuscola. Microscopica, anzi. Ricordo, a coronamento della qualità musicale della quale si stava facendo scempio, gli 883. Già, gli 883. C’era addirittura un loro cd O R I G I N A L E su quello stereo maledetto.
Insomma, la cosa scivolava così. Alla t-shirt da schifo, non ci pensavo neppure più.
“Allora .. ” – urlò Mauro salendo su una sedia di plastica – “.. mo facciamo il GIOCO DELLA SPAZZOLA!” – il nome del gioco lo gridò fortissimo.
Nessuna reazione. A Mauro non importava.
“Create le coppie!” – proseguì, e come se avesse parlato l’imperatore dell’universo, con tutto l’imbarazzo del mondo, ognuno prese a sé una delle ragazze. Mauro mi si avvicinò e mi porse la scopa utilizzata da Fabio un paio d’ore prima per pulire la stanza. Poi mi fece – “Questa sarà la nostra spazzola, comincia tu!” – mi sorrise e io rimasi con la scopa a mezz’aria.
Il gioco della spazzola consiste nel creare delle coppie. Si danza. Uno rimane fuori, con la spazzola in mano, gira per le coppie che ballano, sceglie la ragazza con cui fare coppia e da la spazzola al ragazzo che sta danzando con lei. A quel punto, colui che ha ricevuto la spazzola dovrà cercarsi un’altra ragazza, che non sia quella appena lasciata.
Nonostante la musica non fosse propriamente ballabile, tutti se ne stavano avvinghiati come se stessero facendosi il lento più lento della storia dei lenti. Sembrava nelle orecchie avessero degli auricolari da cui fuoriusciva tutt’altro.
Cominciai a girovagare tra quei ragazzi infighettiti e quelle ragazze profumate. Mi sentivo fuori luogo. Praticamente, lo ero.
Porsi la spazzola/scopa all’altro Fabio. Non perché avessi particolarmente notato la sua partner. Lo feci semplicemente perché sapevo che l’altro Fabio non mi avrebbe sputato addosso nessuno sguardo micidiale, non avrebbe fatto commenti e un po’, avrebbe capito la situazione. Mi avvicinai e lui capì, neppure il tempo di raggiungerlo e lui s’era già staccato. Sorrise pienamente consapevole della funzione del gioco. Afferrò la scopa.
Non me ne resi conto, quando girai la testa smettendo di guardare l’altro Fabio ero già vicinissimo a lei. La guardai, feci un’esposizione dei miei denti, sarebbe dovuto essere un sorriso. Lei invece, portò dolcissimamente in alto gli angoli della sua bocca. Mosse il mento come per avvicinarmi, sollevò le sopracciglia e io mi sentii sprofondare. Improvvisamente mi ricordai della mia maglietta TUTTO MUSICA macchiata di sangue, del fatto che non fossi tornato a casa a lavarmi come gli altri, del fatto che probabilmente risultai lo sfigatone di turno fin dall’inizio della festa e di tante altre menate. Me ne scordai immediatamente quando lei mi poggiò la sua mano sulla spalla. Quel movimento provocò uno spostamento d’aria profumatissimo. Dev’essere questo l’odore degli angeli – giuro, pensai questa cosa stupidissima. Con la maglietta TUTTO MUSICA macchiata di sangue. Cominciammo a ciondolarci a destra e sinistra, come un pendolo. Io le tenevo le mani sui fianchi, un po’ più in sù. Passò un minuto che sembrò un millennio e lei fece pressione con la sua mano. Capii, non so come, che potevo avvicinarmi. Capii che non si ballavano così i lenti. Capii che probabilmente, ad un certo punto, avrebbe addirittura potuto poggiare il suo viso sulla mia spalla. Con la maglietta TUTTO MUSICA macchiata di sangue. Le mie mani si mossero naturalmente, con l’avvicinarmi. Finirono con l’intrecciarsi e si posarono sui suoi capelli. I suoi capelli lunghissimi. Fino al sedere. Per un istante credetti di averglieli tirati leggermente, feci per ritrarmi un poco e le sussurrai uno “scusa!” più veloce della luce. Mi guardò, non le sembrava le avessi tirato i capelli. Arrossii mentre mi rendevo conto che quella, probabilmente, era la prima volta che toccavo i capelli di una ragazza. Non una bambina di cui si millanta l’amore a 5 anni. Ma un’adolescente, una ragazza. Grande quanto me.
“Cambio!” – Piero era dietro di me. Con la scopa.
Lasciai andare i fianchi di quella che poi scoprii chiamarsi Alessia.
Il resto fu inutile, non ricordo neppure le altre ragazze con cui ballai. Ormai ero un esperto del lento, dopo Alessia.
La festa finì dopo circa un’ora buona. Comunque non ricordo nulla di ciò che ci fu dopo. Probabilmente facemmo quel gioco fino alla fine, ma non m’importava. Neanche per niente! Tornai a casa, buttai la maglietta TUTTO MUSICA macchiata di sangue nel cesto delle robe sporche nel bagno di servizio. Corsi in camera. Presi un blocchetto di fogli e cominciai a scrivere:
“Credo di essermi innamorato.. lei si chiama Alessia.. e non saprà mai niente.. è bellissima, ha i capelli lunghi fino al sedere e mi guardava. Mi sono innamorato.. “.
Posso dire che il fatto di essermi innamorato per la prima volta coincide con il momento in cui ho ballato con una ragazza, la prima volta. Le ho annusato i capelli per la prima volta. Le ho sfiorato i capelli, per la prima volta. Mi ha abbracciato, per la prima volta. Mi ha sorriso una ragazza, la prima volta. Ho scritto le mie emozioni, per la prima volta. Ho annusato la sua pelle, per la prima volta.
Il giorno dopo, pur consapevole che la cosa sarebbe finita in una nuvola di fumo, fui felicissimo. Fui felicissimo per l’intero mese. Fui felicissimo, fino a che non mi accorsi che mia madre aveva gettato la maglietta TUTTO MUSICA perché macchiata di sangue. Avrei voluto metterla ancora, per possedere la sensazione, l’illusione di sentire il profumo della sua pelle. Non la rividi più.
Tempo fa mi aggiunse su facebook.
Lei mi aggiunse su facebook.
Io non la riconobbi, ci parlammo per un po’. Ci dicemmo delle amicizie in comune. Guardai le sue foto e.. Alessia. Non l’avevo riconosciuta. Le dissi tutto. Lei non ricordava. Nulla di nulla. Era ancora più bella.
La mia idea di Alessia era più forte della realtà.