La passeggiata

Mentre passeggiavamo
e ti legavi il pullover alla vita
mi parve che il quartiere fosse
una scenografia perfetta
m’importava solo che quel pomeriggio
ti avessi preparato un buon caffè;
la casa del vigile, alla girata
aveva la veranda con le luci accese
una piccola festa forse o semplicemente
sua moglie che leggeva al fresco;
raggiungemmo il mare
mentre quello muggiva
per scacciare i turisti dell’ultima ora
avrei voluto dirti qualcosa di forte
che potesse incastonarsi con la potenza di quel momento
invece praticai una specie di silenzio
perché posasti la guancia sulla mia spalla
così facendo mi rimboccasti le parole e
senza accorgertene
facesti un capanno attorno alla mia gioia bambina
e cominciasti ad abitarla.

Quei due.

Dieci preti neri neri camminano uno dietro l’altro sul marciapiede opposto sventolando gli abiti talari. La loro traiettoria è attentata da frutti di cani, motocicli incatenati, cartelli stradali e pubblicitari, piccole pozzanghere formate dal cedere di alcune mattonelle. Loro sembrano aleggiare su tutto questo, lievitano con eleganza spirituale. Per assistere a questo fotogramma che nemmeno Sorrentino, mi sono bruciato l’interno dell’indice e del medio: la sigaretta s’è fumata da sola. La città enorme, la trappola comoda, si srotola tutta attorno al centro che coincide con il punto esatto in cui sono seduto. Mi spetta un altro pizzico di ritardo di Dora, un altro poco di poco tempo, poi lascerò ‘sta poltronissima vip sulla scena di un indaffarato mattino metropolitano.
Dora arriva. Strappo il suo bacio sentito e le restituisco un tanto di saliva. Penso in un lampo che – come si fa ad avvicinarsi in maniera così appassionata, a un qualcun altro qualsiasi, così velocissimamente? Intanto già parla. Ininterrottamente parla. Sì – faccio io – sì sì. Arriviamo all’all you can eat del cibo italiano. È nuovo – dice voltandosi mentre spinge la porta – tutte ricette italianissime, porzioni piccole e quindi mangi quello che vuoi fino a che non scoppi. Dora è la stessa che mi strappa le gonadi con la storia di smazzare, di come stavo quando l’ho conosciuta tre mesi fa – un figurino. Alle volte preferisce così come sto ora, però. Crede che io non possa uscire dal suo ranch perché, come sto ora, mi fa meno desiderabile agli occhi delle altre, forse. Sbaglia.
No, non abbiamo prenotato – rispondiamo a quello che accoglie i clienti, forse il proprietario, all’ingresso. Va bene uguale – dice – oggi siete fortunati. Come no, come no – gli rispondo nella testa. Ci accomodiamo al tavolo. Ci sono parecchi camerieri, tutti vestiti uguali col grembiule-stereotipo che si ha all’estero del ristoratore italiano, sorridenti a sforzo.
E poi stanno due a un tavolo più in là. Una ragazza pienotta in maniera educata che pare uscita poco fa dall’insegnare catechismo ai figli degli amici dei suoi, tutti professionisti con un nome. Un freakettone tanto magro coi capelli a paglione, curati però, un cardigan vagamente grunge. Chissà se è dal suo sguardo spuntato, oppure dal modo basso in cui muove le mani bianche e sottili, in qualsiasi caso traspare tutto il benessere economico e la scomodità sociale della sua famiglia. Dora mi legge il menù. Tutto me lo legge. Ordiniamo. Anzi, ordina. Dora parla, persino guardandomi, ma non s’accorge di cosa m’interessa davvero. Non sa. Vorrei mi raccontasse cosa è successo al fratello di suo padre, il motivo per cui lo chiama fratello-di-suo-padre e non zio. Dora parla e vabbhè. M’interesso a quei due. Quei due si interessano a loro due, com’è giusto che sia, come dovrebbe essere. Ma c’è una storia lì, la vedo svaporare dai loro corpi. Ci sto pensando. Ora all’improvviso m’è chiaro. M’è chiaro perché lui le prende la mano, la tira verso sé, quella lo guarda incantata, lui gliela bacia. Mentre lo fa si guarda attorno.

La precedenza

Vorrei vederti guidare
e così
starmene accanto
mentre guardi i segnali
e incroci sguardi avversi:
i maschi che
grazie al tuo sesso concavo
ti danno la precedenza
e non solo quella.

Il primo pomeriggio della mia vita

Il primo pomeriggio
della mia vita
si chiamava
Arianna
aveva otto
o forse nove
cicatrici sul braccio
camminava
sempre a
testa in
giù
e
se
oggi
ancora
si ricorda
un poco di me
è solo perché
una volta
le dissi
che
per me
poteva stare
con la testa in giù
tutto il tempo
che voleva
che tanto
i mostri
restano
mostri
per lei
per me
per tutti.

Vorrei vederti guidare

Vorrei vederti guidare
e così
starmene accanto
mentre guardi i segnali
e incroci sguardi avversi:
i maschi che
grazie al tuo sesso concavo
ti danno la precedenza
e non solo quella.

La sera in cui lei arrampicò il corpo di lui

Gli arrabbiati piacciono agli arrabbiati
tu respira e cerca di copriti da quella pioggia nera
– mentre le diceva così
venne un rapido ululato dal traffico cittadino
che gli divorò per un breve momento le parole
guardava oltre il vetro
dietro i palazzacci annottava
poi continuò
– io non cerco un’oasi di tranquillità
cerco il tumulto
il precipizio
e in tutto questo
di farmi mancare il più possibile le cose necessarie.
 
La donna
poggiata scompostamente sul divano alle spalle di lui
si coprì la faccia
voleva fermare il peso delle parole
combattere la gravità pachidermica di ciò che le stava per dire.
L’uomo si voltò senza rivolgerle il viso
le si avvicinò
torreggiando
lei lo arrampicò con gli occhi
che parevano due pozzanghere
allora partì dalle ginocchia
al pube
poi il petto
il mento
la bocca
e infine
esausta
raggiunse l’iride.
 
– Ricordi la linea da cui siamo partiti?
L’amore è una maratona
si parte assieme
e vince uno
uno solo
e non
sei
tu.

Scrivendoti una canzone

Oggi ho provato a scriverti una canzone
ho cominciato parlando di cose
che noi due soli
conosciamo
 
poi ho avuto paura che fosse troppo
ho avuto paura che le parole difficili
si potessero intrecciare male
e ne venisse fuori un gomitolo disordinato
 
così ho pulito gli accordi
semplificato le armonie
e ridotto la melodia
a poche note
 
la mia canzone però
non aveva ancora
la giustizia suprema che ti concede la vita
quando ti meravigli per un bocciolo di rosa che si schiude
 
e allora sai cos’ho fatto?
ho capito che
la canzone che stavo provando a scriverti
non sa e non può contenerti
 
così ho chiuso il pianoforte
sono uscito in terrazza
svelandomi intero
alla luce che esondava intorno
 
il maestro maestrale rabbrividiva il mare
i gabbiani facevano l’amore coi pescherecci in ritirata
ho spinto il mio sguardo oltre il confine dell’orizzonte
e ho lanciato un pensiero d’amore nel vento
come se tu fossi un miracolo
e io la preghiera che l’ha supplicato.

Lì ci sono i passi

Voglio baciarti gli angoli della bocca.
Lì c’è il tuo sorriso.

Voglio accarezzarti le orecchie.
Lì ci sono le mie parole.

Voglio toccarti le gambe.
Lì ci sono i passi che ti porteranno a me.

È successa una poesia

È successa una poesia
come succede il maestrale
ha voltato le parole
stese ad asciugare
sul filo di ciò che avrei potuto dire.
 
È successa una poesia
ed è fiorito tutto un giardino
il mare della tranquillità
m’ha ricordato
che i fiori esistono anche di notte.
 
È successa una poesia
è successa piccola piccola
alla luce del primo mattino
ha cominciato a danzare
come una fiammella leggera.
 
È successa una poesia
a cui voglio chiedere
di quale scuro colore sarà
il giorno in cui non riuscirò più
a riconoscerla.

Le parole che avevo messo da parte per te

Lo vedi?

Il cesto di paglia

con le parole che avevo messo da parte per te

se n’è andato per terra.

Sono inciampato

sul tuo silenzio

e il cesto di paglia

con le parole che avevo messo da parte per te

s’è schiantato a terra.

 

Ora,

stanotte ha piovuto molto,

il marciapiede fradicio

ha reso le parole

irriconoscibili.

Si sono unite,

bagnate com’erano,

in una poltiglia di sillabe,

accenti,

punti,

virgole,

parentesi,

vocali,

consonanti

e maiuscole.

 

Ho raccolto

quello che c’era da raccogliere.

Sono tornato indietro,

ho aperto casa,

poggiato la palla di parole,

il cesto

e le mie intenzioni

sul tavolo della cucina.

Poi mi sono accucciato sul tappeto

accanto al tavolo della cucina,

come faceva il segugio

che è il tuo sesto senso,

quando mi dicevi

che t’avrei lasciata

perché io sto bene

solo da solo.

E io ti rispondevo che no,

che dici,

ma dai.

 

Lì mi sono addormentato,

sul tappeto accanto al tavolo della cucina,

mentre gocciolava sulla mia faccia

il sidro

delle parole che avevo messo da parte per te.