Un fiore feroce

È nato un fiore feroce
a cui non basta bucare il cemento
lui dice zitto i colori dei petali suoi
che il buio annerisce.
 
La tavola in disordine
il vino versato:
cola una goccia rossa
e nel tragitto verso la terra
confonde il senso dell’ordine.
 
Coriandolando
la polvere dà un peso specifico al tempo.
 
Solo i grilli
e i disperati
cercano l’amore
al riparo dalla luce
ingigantendo l’attesa
per un attimo di finitudine.

Cristo e liquori

Scesi dalla metro, il Pireo ci offrì:
un cieco che disponeva all’elemosina,
un prete ortodosso sull’uscio della chiesa
poggiato al muro come il proprietario di un pub
– you can enter with shorts and skirt –
ci urlò sollevando il mento
poi verso uno dei moli, una giovane donna molto bella
salì a bordo di uno yatch con personale di bordo;
proseguendo ci trovammo di fronte il portone
dell’associazione nautica Aristoteles Sokrates Homer Onassis
e io dissi – pazzesco!
Ma ero stanco, avrei potuto dirle di più
spiegarle chi è stato Onassis
tutto ciò che ha significato
ma ero stanco
così poco dopo ci fermammo alla taverna Adelfos
ordinammo sarde arrosto, taramosalad, polpo alla brace;
in acqua i gabbiani panciuti mangiavano le molliche del nostro pane
a due palmi dal tavolo.
Il lenzuolo blu della sera si stese completamente
e percorrendo il ritorno nella ragnatela delle case vecchie
mi capitò di guardare all’interno
di una finestra accesa
di un piano terra,
mi fermai:
un uomo anziano col vestito della festa, di spalle
il suo collo pareva quello di una tartaruga tricentenaria
se ne restava seduto di fronte al lettore di musicassette
ascoltando una saltellante melodia di bouzouki
ma la cosa che più di tutte mi rivoltò il petto
fu notare all’angolo opposto della stanza
un carrellino con sopra – da sinistra verso destra:
una grande cornice dorata con dentro una foto in bianco e nero
un volto di ragazza – sua moglie forse –
santini
una cornice di legnaccio
con dentro un disegno raffigurante Maria piangente
un’icona di Cristo pantocratore
e subito accanto, svariate bottiglie
– alcune piene, la maggior parte quasi terminate –
di rakomelo, ouzo, metaxa, tsipouro, mastika e altro mai visto.
Tutto questo sullo stesso piano.
Moglie
santi
Cristo
e liquori.
Riprendemmo il passo.
A pochi metri le grandi navi dei milionari
imitavano il gorgoglìo della terraferma.
Le voci e il rumore delle posate
uscivano dalle affollatissime taverne col menù turistico.
I gatti di strada litigavano coi colombi.
L’odore di nafta misto acqua di mare misto pesce fritto.
Poco altro accerta la verità della grazia
come la disperazione.

Le formiche non sanno pregare

Una striscia di calce immacolata
anella la piccola cappella ortodossa dell’isola.
Oltre la calce
per qualche motivo scientificamente dimostrabile
le formiche non vanno;
in questo modo l’uscio della bomboniera sacra è salvo.
 
Le formiche non sanno pregare.
 
Tre grandi alberi di eucalipto vegliano tutto
sfrondano col Meltemi
raffrescando la croce bianca
che svetta nel cielo lattiginoso.
 
L’umidità smeriglia la riva della terraferma dall’altra parte.
 
Tutto ora si siede:
l’uomo della taverna
l’anziano con il komboloi
un enorme gabbiano grigio
e i miei pensieri, infine puliti.

Avocado su Sacher

L’auto fagocita il nastro grigio della strada che si trapunta di macchie nere mano a mano che i goccioloni cominciano a precipitare dal cielo. Simona, andando indietro con la testa, chiude gli occhi per godersi il picchiettio che incalza insistendo sulla carrozzeria. Cerca di rilassarsi. Nemmeno un momento dopo Dario riprende il discorso, intende specificare la sua posizione sulle liste di sinistra per le prossime amministrative; Simona allora schiude gli occhi. Risalendo la Puglia, tornando a casa nel finesettimana dopo le lezioni, ha sempre la sensazione che viva in una regione con uno steccato tutto attorno, uno steccato gigantesco e che quello sia sufficiente a tenere le cose del mondo di fuori, fuori. Io Pansa mica lo voto solamente perché Ema ci sta facendo la tesi assieme, un’amministrazione seria non ha bisogno di questi personaggi, non di questi che cercano consensi fragili e facili – dice Dario. Prima della prossima curva c’è una piccola stazione di servizio e Simona lo sa, così gli dice fermiamoci qui, lui risponde che mezzoretta e sono arrivati e lei insiste ottenendo uno sbuffo, l’accensione della freccia e la svolta nella corsia di decelerazione. Nello spiazzo antistante il cubo in muratura che contiene bar, toilette e tabacchi, ci sono solo due pompe, una per la benzina e l’altra per il gasolio; c’è anche un’auto di ben diverse pompe, funebri, senza conducenti e col carico pieno. Simona ci fa caso e accenna un sorriso a Dario che spinge un’occhiata in direzione dell’auto, tira su col naso e apre diffidente la portella. Esce per primo per non mostrare segni di genetica superstizione che male aderirebbero alla sua coscienza socialista. I due pinguini sono al bancone e hanno appena finito di centellinare i caffè nella densità di un silenzio a malapena raschiato dalla pioggia che fuori s’è fatta importante. Sembra si detestino tanto quanto è il tempo che sono costretti a passare vicini alla morte. Il barista, a vederlo vicino ai becchini col grembiule coloratissimo, pare un avocado acerbo su una Sacher; asciuga tazzine. Nel momento in cui Dario e Simona fanno cigolare la porta, tutti si voltano verso tutti. Radionorba passa la Pausini che, dalle casse sfasciate, più che cantare sembra gracchiare. Un barista, due becchini e due fidanzati che studiano fuorisede. Sembra una barzelletta e invece in tutti loro e addirittura nella morte, c’è un qualche tipo di disamore. Questo pensa Simona.

Dario la lascia all’angolo prima di quello di casa che ancora sta parlando di Pansa e delle amministrative. Simona lo interrompe con un bacio posato appena appena sulle labbra, esce dall’auto e lui non la sta a guardare. Parte subito senza lasciarle nemmeno l’ombrello. Lei pensa che con molta probabilità avrà ricominciato a parlare da solo. Di piovere ha smesso, comunque. Una volta giunta sotto casa guarda in alto e tutte le persiane della palazzina a due piani sono serrate. Dà una rapida occhiata interrogativa alla coccarda nera attaccata al portone verde e giallo. Attraversa la soglia che è aperta, il buio dell’atrio le si attacca alle reni. Salendo il primo scalino s’immobilizza: un’auto parcheggia giusto all’imboccatura del portone.

Pomeriggio, in un caffè di Aghios Dimitrios

La gioia elementare dei ragazzi che guardano la MotoGP
nel bar deserto alle prime ore del pomeriggio domenicale.
Aghios Dimitrios non è l’Italia
e Atene non è Roma
c’è il primato della vita fatta che torreggia sulla vita detta.
Io mi trovo a un piccolo tavolo, fuori
in veranda, solo solo
e quelli guaiscono seduti al tavolaccio lungo, all’interno
tifano Valentino come fosse fratello loro;
il profumo del mio caffè greco si mescola a quello dell’ouzo
qualcuno beve birra Fix
solamente il sole s’azzarda sulle mie mani
filtra dal pergolato fitto di foglie di vite
– le Karelia hanno impregnato persino quelle.
Quante marche in una sola fotografia.
Penso ti sarebbe piaciuto
se ci fossi stata
chiedermi:
a cosa stai pensando?
Guardando me e poi guardando loro
riguardando me e poi riguardando loro
col sorriso bagnato da troppi baci clandestini.

Ricorre dentro

Di nuovo s’è affacciata dalla cucina
la ragazza stretta con la treccia rosso vinaccio
il padre anziano controlla la cottura dell’agnello
io unico cliente al tavolino fuori, guardo dentro
dentro il locale e dentro di lei
la timidezza le provoca un riso acuto
le pareti ingiallite del piccolo estiatorio sono vuote
solo sta appeso un quadro
con una foto sbiadita da anni di sole
che entra dritto a mezzogiorno
mostra il porto di Patrasso negli anni ‘30
imbarcazioni a vela sul molo in lontananza
e in primo piano tre uomini col cappello
che guardano verso l’obiettivo
sembra siano stati sorpresi
hanno la posizione di quelli che quando sono in gruppo
e si chiacchiera di qualcosa di serio
vengono interrotti bruscamente.
Il piano cottura è a vista
tutto là dentro è senza cura
il mobile della cucina in acciaio, invece, splende.
Dal televisore arriva qualche immagine interrotta
un servizio sui siriani in fuga da Assad
il profumo dell’agnello arriva fino a qui
nemmeno il tempo di pensarci
la ragazza stretta con la treccia rosso vinaccio
s’avvicina e porgendomi il piatto mi dice καλή όρεξη
io rispondo efkaristo-poli
taglio la carne morbida morbida e lei resta alla porta
braccia conserte e denti affacciati
io le chiedo in inglese se di lì passano molti italiani
sì, ragazzi in gita scolastica da Brindisi mi fa
la settimana scorsa mi fa
mentre lo dice, con una mano
s’accarezza su e giù l’avanbraccio
dall’interno tuona la voce baritonale del padre anziano
non capisco, probabilmente le dice di rientrare subito
così corre da lui, la rimprovera per qualcosa
lei toglie il sorriso.
Mentre vado via torna sulla porta
si poggia al muro, è seria
ciao le faccio in italiano
ciaò fa lei
ritornano i suoi denti
ritorna la voce di suo padre
e ricorre dentro.
Ancora oggi
ancora domani
ancora
mi ricorre dentro.

Più di un sole

Poggia i sassi
uno a uno sulla sabbia
mano a mano che li dipinge.
Non riesco ad afferrare l’immagine
ma mi sembra la stessa per ogni pietra:
un vago fondo azzurro che si spezza a metà
poi una striscia gialla e un punto bianco tra i due.
La luce attorno è così forte che sembra provenire da
più di un sole [è la salsedine che appesantisce l’aria fresca].
Allora penso al petrolio per sporcare la delicatezza, all’atalante
all’equilibrio inquinato: inquieto, acquattato e poi ancora inquieto.
Voglio voler esistere nella curva infinita per saper mai cos’aspettarmi.

Amorenonamore

Da che hai chiesto amore
da lì [in poi] è cominciato il disamore
non soltanto perché tu lo chiedessi: l’hai preteso
io non ho mai ecceduto nel darti il mio, dal mio.
 
Non ho lezioni per nessuno né mai ne ho avute
però conosco il punto esatto in cui sboccia l’errore
ed è sempre nel non considerare il modo con cui l’altro
può affacciarsi al privato sacro sentimento nostro.
 
Ché si ama sempre da soli, amore non amore
questo è il sacrificio il prezzo il contratto.
 
Da che hai chiesto di essere amata
da lì [in poi] s’è stancato il fuoco.

In un vento cinematografico

Eri di là
e mi sono ritrovato a sfogliare le foto delle tue vacanze passate
la primissima cosa che ho notato sono stati i tuoi capelli, fin sotto le spalle
mai tinti
così reali in un vento cinematografico a Valona
imbizzarriti dall’umidità di un posto dell’est con la neve
scomposti ma più corti in un momento rapito al ridere su una spiaggia di qualche sud
davanti agli occhi mentre fai finta di suonare una chitarra come fossi Kurt Cobain
[una chitarra classica, peraltro]
poi tornano ordinati dietro le orecchie mentre guidi
una macchina a scontro
con tua figlia.

L’abbastanza

Un uomo entra con sua figlia in una sala scommesse
incrocio ‘st’uomo mentre cammino sul marciapiede
poi, subito oltre il marciapiede
c’è la casa dei miei con il cortile
è il cortile dentro il quale ho cesellato i miei anni piccoli
si giocava a guardarci i cazzi
a chi ce l’aveva più lungo
a meravigliarci del corpo e quindi a far gemmare psicologie
che avrebbero afformato quello che tutti siamo oggi
ex malandrini di periferia di cittadina di provincia
chi avvocato chi malvivente
chi fotografo chi medico chi niente.
 
Coi cacciaviti rubati al fabbro vicino
che c’insegnava le bestemmie e che alla domenica pregava Iddio
scalpellavamo fosse profonde sull’asfalto neronero del cortile
[le biglie ci si dovevano buttare al salto e rimanerci per bene].
 
L’uomo che entra nella sala scommesse
m’ha fatto tornare questo
l’abbastanza
che allora per noi era quello per cui avremmo dovuto vergognarci
e per lui adesso l’irreparabile vuoto della superfetazione.